Un incontro con Giuseppe Barbaglio

Fu lui, Giuseppe Barbaglio, a chiedere di vedermi. Naturalmente sapevo di lui, dei suoi studi, severi e privi di scrupoli auto-censori, sulle Sacre Scritture. Non ebbi alcuna difficoltà. Ci vedemmo nel mio disordinatissimo studio di Corso Trieste, a Roma, credo poche settimane prima della sua morte. L’uomo sedeva di fronte a me, in una posizione piuttosto sghemba, del tutto indifferente ai mucchietti di carte e libri sparsi sul pavimento, fra cui si era dapprima mosso con tranquilla circospezione facendomi pensare a un guardingo cacciatore di tartufi.
L’uomo appariva, come Abramo, stanco ma non sazio. Recava in volto i segni tirati della sua originale ricerca di biblista laico, di credente al di là dei dogmi, di appassionato ricercatore del divino nell’umano.
Mi interrogavo su che cosa mai venisse a cercare, un uomo di tal fatta, presso  un sociologo, cioè presso il cultore di una disciplina che tutti sanno, o presumono di sapere, al rimorchio, nella maniera più sprovveduta, della cronaca e della mode più effimere.
Non tardai a rendermi conto che avevo, seduto davanti a me con una spalla lievemente più alta dell’altra, un essere umano eccezionale: un biblista rigoroso, ma altrettanto rigorosamente laico, un cristiano che cerca lo spirito oltre la lettera.
Si stabilì quasi subito fra noi una corrente di umana simpatia, un feeling, che mi dava anche un senso innegabile di benessere fisico.
La stessa cosa mi era già accaduta altre volte: con Leo Strauss a Chicago, con Cesare Pavese, Felice Balbo, Adriano Olivetti. Forse non era solo generica simpatia. Era la percezione di una consonanza interiore profonda, immediata e logicamente inesplicabile. La stessa consonanza che nel Fedro platonico viene descritta quando la pupilla può vedere se stessa solo riflessa nella pupilla dell’amico.
Si dànno anime errabonde che finalmente, a tratti, trovano l’interlocutore privilegiato. Nulla, però, di dolciastro o di degnante compiacenza. Nulla da spartire con i consueti convenevoli dell’ospitalità. Solo il comune tentativo di cercare gli sparsi elementi d’una consapevolezza costitutiva della vita interiore. E per cominciare: Cristo prima di Cristo. La questione del Pleroma: è il cristianesimo il compimento dell’ebraismo o è forse, rispetto al Vecchio Testamento, soltanto un’effimera eresia, una propaggine impazzita, al più una variabile folle, storicamente irrilevante?
Riandavamo insieme, e Barbaglio quasi mi teneva per mano e mi indicava la strada come un fratello maggiore, al De testimonio animae di Tertulliano, a quel lógos spermatikós presente quasi ovunque, per quanto spesso nascosto nelle pieghe della storia umana. «Novum testimonium advoco – dice Tertulliano – immo omni litteratura notius, omni doctrina agitatius, omni editione vulgatius, toto homine maius, id est totum quod est hominis. Consiste in medio, anima, seu divina […] seu minime divina […] seu de caelo exciperis […] seu post corpus induceris. […] Sentis igitur perditorem tuum, et licet soli illum noverint Christiani, vel quaecumque apud deum secta, et tu tamen eum nosti dum odisti».
Barbaglio non condivide il mio entusiasmo. Sussurra che la mia fede senza dogmi finisce per essere più marmorea, se possibile, di un dogma celebrato da venti secoli. È blandamente sornione. Ha delle riserve critiche, filologiche e sostanziali, tipiche del grande esegeta. Gliele leggo nella piccola, appena percettibile smorfia del labbro inferiore.
Con amichevole crudeltà versa gocce del suo meditato dubbio sulle ardimentose anticipazioni di questo Ulisse che forse non arriverà mai a una sua Itaca. È vero infatti che presagi cristiani si trovano negli scrittori della classicità greco-romana. La morte di Socrate ha una compostezza e una accettazione delle leggi, anche di quelle ingiuste, che suona cristiana. Quando Seneca, poi, scrive che «vivere altro non è che ascoltarsi morire», riesce difficile negargli una consapevolezza della finitudine umana, che lo porta assai vicino al concetto e alla speranza di una vita oltre la vita.
Del resto, non lo ha forse visto con chiarezza, il figlio del pastore, il contrasto fra ebraismo e cristianesimo? Si vadano a compulsare i Frammenti postumi: «Il benessere sulla terra è la tendenza religiosa ebraica. Quella cristiana si fonda sulla sofferenza. Il contrasto è enorme» (cfr. F. Nietzsche, Frammenti postumi, vol. I, a cura di Giuliano Campioni, Milano, Adelphi, 2004, p. 152).
Ma è possibile una fede senza dogmi? La discussione con Barbaglio si fa fervida. C’è dogma e dogma. Conveniamo che, ad ogni buon conto, i dogmi non sono poltrone su cui dormire. Arrivo a citare Simone Weil, là dove scrive che «les dogmes ne sont pas des choses à affirmer». Cioè : non sono una rendita. Sono meta-storici, d’accordo: ma come il sole che sorge e che, a poco a poco, non di colpo, si afferma e cresce sul filo dell’orizzonte, così il dogma viene rivelandosi alla coscienza umana nella sua storica cornice contestuale, secondo uno sviluppo graduale e omogeneo.
Non ricordo a Barbaglio i miei discorsi ai piedi della statua di Giordano Bruno in Campo de’ Fiori. Mi limito ad accennare che mi riesce difficile concepire Gesù come il creatore di una religione organizzata. Gesù, per me, resta un anarchico che parla con chi lo vuole ascoltare, libero da ogni legame familiare, di conventicola e di chiesa, innamorato dei gigli del campo e degli uccelli dell’aria.
Barbaglio non ha dimenticato la durezza inattesa di Gesù quando il giovane perbene gli dice che, al momento, non può seguirlo perché gli è appena morta la madre e ottiene, per tutta risposta, una frase lapidaria: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti».
Per me il vero creatore del Cristianesimo è San Paolo. E chi altri avrebbe mai potuto esserlo? Non certo un buon pescatore analfabeta come Pietro. Paolo di Tarso sa cos’è una struttura gerarchica, ben organizzata e lubrificata, destinata a durare nel tempo, per secoli e secoli. È un ufficiale dell’esercito romano. Appartiene a una famiglia di farisei ed è cresciuto ai piedi di Gamaliele.
Barbaglio non è d’accordo. Ribatto che si è persino insinuato che Paolo di Tarso sia stato un omosessuale represso. Barbaglio lascia cadere la mia osservazione quasi con disgusto. Solo ora mi rendo conto che non aveva tutti i torti e che ai suoi  occhi, in quel momento, dovevo essergli apparso come uno dei molti, zelanti difensori del «libero pensiero», i quali non si avvedono di combattere per un pleonasmo, visto che il pensiero o è libero o non è.
A questo punto è chiaro che non potevo non dedicare alla  memoria di Giuseppe Barbaglio il mio  libro su La religione dissacrante (CED, Bologna, 2013).
Barbaglio è un ascoltatore attento. Interprete, esegeta, filologicamente provveduto, un grande biblista e nello stesso tempo un laico coerente, estraneo ad ogni chiusura settaria o gretta bigotteria. Egli sa che io so che la tradizione non è necessariamente tradizionalista.
La tradizione può essere rivoluzionaria. Barbaglio consente. Nel suo pensoso silenzio, intuisce le ragioni: vi sono nella tradizione semi innovativi che non si sono ancora inverati nella situazione storicamente determinata. Naturalmente, in quanto lascito o retaggio, la tradizione ha bisogno di maestri che la interpretino, la insegnino e, quindi, la «tramandino».
Che tipo di interprete-esegeta è stato Barbaglio? È stato, in primo luogo, un custode rigoroso del ricordo: egli riuniva in sé le qualità della Masorah, e quindi conosceva e padroneggiava completamente il testo originale delle Sacre Scritture, ma era anche un esperto della Kabbalah; in altre parole, possedeva in sommo grado le chiavi interpretative della mistica esoterica del giudaismo rabbinico.
Barbaglio è attento ai testi. Lo è, come me o, anzi, più di me. Ed è forse questa la corrente sotterranea che ci lega. È un uomo del libro. Ma che cos’è la tradizione? La tradizione che è affidata e vive nel libro? Oggi, ne è ben consapevole e conosce le mie polemiche in merito. Barbaglio sa che il libro è in agonia. Resistono le religioni del libro. Resistono e riscoprono i termini della loro unità trascendentale. Al di là dei malintesi storici e dei contrasti di interessi (cinquecento anni fa, la Curia di Roma non capisce il valore del frate Lutero, che, traducendo la Bibbia, fonda la lingua tedesca, ma parla un latino maccheronico, che ha ben poco a vedere con la concinnitas ciceroniana; nello stesso tempo, con la Riforma luterana i principi tedeschi non pagheranno più la decima al Vescovo di Roma), contro i personalismi e al di là delle contrapposizioni, spesso puramente formali, dei teologi e dei dottori di Salamanca impegnati a stabilire il sesso degli angeli, l’unità dei cristiani si impone. Addirittura, mi sembra di cogliere in Barbaglio un’albeggiante convinzione circa la convergenza e l’unità delle tre grandi religioni monoteistiche (giudaismo, cristianesimo, Islam). Non la contrapposizione settaria, ma il dialogo. Nessuna rinuncia alla propria identità, ma nessuna esclusione.
Del resto, non c’è da meravigliarsi se negli stessi Vangeli non mancano concetti fondamentali dell’ebraismo, tanto che uno studioso serio, prestato al giornalismo, ha di recente osservato, presentando Il vangelo ebraico di Daniel Boyarin: se si volesse «riassumere in una riga la tesi di Boyarin, si dirà che Gesù predicò e agì nell’ebraismo, non contro di esso. Confrontando fatti storici, documenti, testi biblici, giunge a una tesi su “Gesù ebreo”. E risponde alle obiezioni delle due parti. Se gli ebrei sostengono che il cristianesimo si è appropriato della Bibbia e l’ha modificata ai propri fini, Boyarin ribatte che lo stesso cristianesimo si è impossessato non solo dell’Antico ma anche del Nuovo Testamento, strappando quel testo di natura ebraica dalle sue radici culturali sviluppatesi tra le comunità giudaiche della Palestina durante il primo secolo per trasformarlo in un attacco alle tradizioni. Insomma, il Nuovo Testamento è più immerso nella vita e nel pensiero dell’ebraismo dell’epoca di quanto sia creduto. Lo è, anche in quei momenti che si credono di rottura: “L’idea di una divinità sdoppiata in Padre e Figlio, di un Redentore che sarà al contempo Dio e uomo, e che questi soffrirà e morirà nel corso del processo di salvazione”. Alcune di tali idee, la divinità Padre/Figlio e il Salvatore sofferente, hanno radici molto profonde nella Bibbia ebraica e possono essere annoverate tra le più antiche riguardanti Dio e il mondo che il popolo israelita abbia difeso a spada tratta» (cfr. Armando Torno, in Corriere della Sera, 23 settembre 2012, p. 37).
Non potevamo discutere, Barbaglio e io, del libro di Boyarin, non ancora disponibile, ma Jack Miles afferma perentoriamente che «Daniel Boyarin vede l’ebraismo e il cristianesimo come Josh e Ben, anche se in ballo non ci sono lo sport e la musica. In ballo piuttosto c’è la questione – sempre cruciale ma forse non più di quanto lo fosse nel 70 d.C., dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme – di come gli ebrei dovrebbero relazionarsi col loro Dio e con la maggioranza gentile dell’umanità. Prima della distruzione del Tempio vi erano numerose scuole di pensiero in lizza su questo punto dirimente. E dopo la catastrofe, le uniche due a restare in piedi furono quella rabbinica e quella cristiana. Teologicamente parlando avevano le loro differenze, ma erano entrambe di stampo ebraico, così come Ben e Josh sono fratelli all’interno della medesima famiglia. Le differenze, come nell’esempio che ho portato, erano tutte all’interno della famiglia e lì sono rimaste non solo per qualche decennio ma, come afferma Boyarin chiaro e tondo, per i primi secoli dell’era volgare. Ci è voluto così tanto per far sì che un’escalation di polemiche reciproche finisse per sopravanzare un senso profondo di fratellanza e creare due identità reciprocamente stabilite laddove, in origine, ve n’era solo una, per quanto non sedimentata».
Ma la nostra discussione, in quell’incontro che, purtroppo per me, doveva essere il primo e l’ultimo, verteva soprattutto sull’apporto storico del messaggio cristiano nella costituzione dello «spirito europeo». E a questo proposito il nostro accordo era totale. A parte il lógos greco e la nozione di individuo, che però a Roma si identificava con l’uomo pubblico, entrambi vedevamo l’importanza della denuncia che il Cristianesimo aveva fatto per tempo valere contro  il lavoro schiavile.
Era una fondamentale, radicale pars destruens contro l’oggettualizzazione (la «reificazione disumanizzante», la Verdingung marxiana) dell’essere umano, che può essere considerato solo come fine, mai usato come strumento. Si noti, e qui il pensiero di Barbaglio mi fu di grande aiuto, non in base a un principio di eguaglianza giuridico-politica storicamente determinato, bensì in nome e per effetto della comune paternità divina.
In fondo Barbaglio, se pur controvoglia, conveniva. Può ben darsi che Pascal abbia ragione. «Le moi» può ben essere «haïssable». La Ichheit di Fichte può ben porsi come altera e solitaria, pur essendo mortalmente vulnerabile. Ma non abbiamo altro. Abbiamo solo l’individuo, come diceva Simone Weil, «in carne e ossa».
La pars construens  del messaggio cristiano la vedevamo nella parabola del buon Samaritano. La salvezza verrà, se ha da venire, dallo straniero: la risposta dell’amicizia – amare senza possedere – , un dono a fondo perduto, e il rifiuto dell’assurda «società di mercato» – esito tragico di una troppo forte economia di mercato.
La situazione è anche più drammatica in un’epoca come la nostra, in cui è venuto meno il rapporto faccia a faccia e la comunicazione elettronica dà luogo a una socialità su scala planetaria, immediata, in tempo reale, ma fredda, disincarnata, priva del fondamentale linguaggio del corpo, tipico dell’antica oralità. L’ego è sempre più chiuso in se stesso, auto-referenziale. L’alter si fa evanescente.
Il dialogo si affievolisce fino a scomparire. Restano il chiasso delle informazioni che deformano, il rumore pubblicitario, la logorrea del narcisismo: siamo alle soglie del post-umano. Non è l’Unico di Max Stirner e neppure l’Oltreuomo di Friedrich Nietzsche. Ancor meno la «superanima», la Oversoul di Ralph Waldo Emerson. Non sappiamo che cosa ci aspetta: l’homo sentiens, l’homo videns, l’homo numericus della sbornia elettronica, senza memoria, nomade sedentario, informato di tutto che però non sperimenta nulla, dimentico dell’homo sapiens socratico figlio, come l’eros platonico, di póros, o dell’espediente positivo e prospero,  e di penía, o della  povertà.
Dovessi osare riassumere il senso complessivo del mio incontro con Barbaglio, ne emergerebbero probabilmente alcune acquisizioni fondamentali:
1. Ogni essere umano si costituisce come tale in quanto si riconosce come individuo identico a se stesso, coerente attraverso il molteplice e multiforme esperire.
2. In quanto collegata con la varietà dell’esperire, l’identità non è un dato fisso; non è un archetipo. È un processo che si apre, muta, si adatta e si scontra con le circostanze extra-soggettive.
3. In quanto processo, l’identità è un «prodotto» storico, e quindi aperto al divenire e all’incontro con il diverso da sé.
4. L’identità è un processo che tende alla costruzione del Sé: a) sequenza cronologica o sviluppo nel tempo; b) dominato dall’esigenza della coerenza soggettiva come effetto di padronanza sulle vicissitudini del vivere; c) rivissute e «superate» nella formazione della personalità della persona attraverso la memoria.
5. Questa formazione comporta un processo di socializzazione essenzialmente meta-individuale, ossia un rapporto con l’altro da sé. L’identità presuppone dunque l’alterità (i Greci classici prendono coscienza di se stessi e della loro identità solo a contatto con i non-Greci, òi Bàrbaroi).
6. Di fronte all’alterità e al necessario confronto con essa, è possibile negare l’altro in nome della «purezza» della propria identità e della «pulizia etnica», ma per questa via si nega inevitabilmente questa stessa identità.
7. Il carattere drammatico della situazione dell’uomo nel mondo di oggi è che può scegliere l’incontro come frutto del dialogo fra le diverse etnie-identità-culture oppure l’incontro irrazionale che si risolve nello scontro violento.
8. L’alternativa alla società multi-etnica e multi-culturale non può essere l’indifferenza o la chiusura del Sé verso l’altro, ma solo l’annientamento dell’altro percepito come minaccia, a torto giustificata dal terrore della contaminazione da contatto, e quindi l’annientamento di sé in quanto l’alterità è necessaria alla costruzione della propria identità.
La comunicazione inter-culturale e i «prestiti» intellettuali da cultura a cultura sono risultati storicamente essenziali per il progresso civile. Vivere significa dunque convivere. Fra i gruppi umani e gli individui, la questione fondamentale non si esaurisce mai nel vincere, ma nel convincere. Non siamo né assolutamente liberi né assolutamente dipendenti, ma inter-dipendiamo. Ci muoviamo in base a nostre iniziative, che corrispondono ai nostri interessi. Ma l’interesse che ci muove non è mai semplicisticamente economico o politico o psicologico. È un inter-esse, uno stare, un trovarsi insieme. È questa insiemità che definisce il fatto sociale. La «naturalizzazione» delle caratteristiche dell’identità tende a congelarla, a estraniarla e a escluderla dalla storia, dalla partecipazione propria alla vita degli altri. Ne fa un dato fisso. Ma per questa via ne intacca alla radice la capacità evolutiva dinamica, la marmorizza. In senso proprio, la uccide.
Per quanto possa apparire scoraggiante al lettore non specialista l’analisi dei rapporti fra Arthur de Gobineau e Machiavelli, per un verso, e Droysen, dall’altro, vi sono almeno due motivi per tentarli: la meritoria dimostrazione, in primo luogo, della cesura radicale fra biologia e storia, tanto da far cadere il rischio di qualsiasi commistione fra livelli di analisi non compatibili e una concezione dogmatica di natura umana e, in secondo luogo, una serie di indicazioni didattiche di ordine pratico.
In questo senso, l’intento potrà riuscire utile non solo dal punto di vista latamente culturale come contributo al chiarimento concettuale dei vari «razzismi», da quello a sfondo biologico al più recente «razzismo differenzialista», teso a salvare la supposta unicità di certe culture rispetto al pericolo di incauti meticciamenti, ma offrirà inoltre strumenti e suggerimenti utili al lavoro quotidiano nelle scuole, là dove già oggi la presenza multiculturale e multilinguistica è esperienza quotidiana.
Barbaglio mi aiuta a rendermi conto della nuova situazione sociale in cui oggi ci si trova a vivere. Fin verso la metà del secolo scorso, si pensava che la storia, nel suo sviluppo diacronico, cambiasse alloggio, per così dire, secondo un tragitto ideologicamente prevedibile, e muovesse da Oriente verso l’Occidente europeo, segnatamente verso Roma e il Mediterraneo, per scegliere poi, come sede privilegiata e supremo compimento, il Nord Europa, la Porta di Brandeburgo a Berlino, capitale della Prussia guglielmina. Correttamente, in questa prospettiva, va tentato un ardimentoso raffronto fra de Gobineau e Machiavelli e quindi, in un’epoca più ravvicinata, fra il teorico dell’ineguaglianza delle razze e il grande Johann Droysen. Ma il fatto nuovo fondamentale, determinatosi nel periodo post-colonialista al termine della Seconda guerra mondiale, è nello stesso tempo semplice e rivoluzionario: lo sviluppo storico non è più diacronico, non segue più un’ordinata e prevedibile serie di tappe evolutive che lo portino al suo supposto fine ultimo eurocentrico, tanto da indurre a ritenere che le culture non europee siano pre-culture, culture abusive, non-culture.
Lo sviluppo storico, da diacronico, si è fatto sincronico. Ciò significa che tutti i gruppi umani, anche quelli già confinati negli scantinati della storia e considerati mero combustibile inerte, producono in realtà strutture di significato, ossia culture; sono compresenti e compartecipi, in prima persona, dello sviluppo storico, dotati quindi di una sostanzialmente pari dignità, per quanto non ancora ovunque riconosciuta da ordinamenti legali in ritardo rispetto all’evoluzione umana effettiva. Barbaglio tempera i  miei entusiasmi. È più cauto di me. Io credo che non ci sia da temere alcun pasticcio sincretistico nell’interscambio fra le diverse culture. Nell’attuale situazione del mondo, quando è tecnicamente possibile comunicare tutto a tutti in tempo reale, la comunicazione e i rapporti interculturali non sono più un’opzione. Sono una necessità. Il dilemma è crudele nella sua semplicità: dialogare o perire. L’alternativa al dialogo non può più essere l’indifferenza o la reciproca ignoranza. Noi oggi sappiamo che è lo sterminio. Occorre prendere coscienza di questa situazione storica, della sua essenziale novità – una situazione che è insieme un problema e una sfida.
Per la prima volta, dopo venticinque secoli, dall’Atene di Pericle nel quinto secolo avanti Cristo ad oggi, il destino dell’Europa non è più in mano agli europei. L’eurocentrismo è finito. Tutto dipenderà dai rapporti fra Stati Uniti e Russia, in subordine fra Cina e India. Lo sviluppo storico non è più diacronico, ma sincronico. Tutte le culture sono presenti sulla scena storica e interagiscono. Il dilemma è chiaro: dialogare o perire.
Barbaglio è d’accordo su un punto fondamentale: la scomparsa del prossimo. Io lo incalzo: senza il prossimo, il Cristianesimo, dopo venti secoli, non è neppure cominciato. È vero. Un progresso c’è stato. Ancora un pensatore come Platone riteneva gli schiavi «piedi d’uomo». E il discepolo Aristotele si spingeva di poco più avanti. Vedeva gli schiavi come antropoidi, pre-umani. Li definiva «macchine animate». Ma oggi siamo veramente sicuri che la schiavitù sia scomparsa dalla faccia della terra? Sappiamo solo che stenta a farsi strada l’unica regola etica a portata universale: tutti gli esseri umani sono esseri umani, uomini e donne, e come tali vanno riconosciuti, accolti, rispettati.
Si è fatto tardi. Giuseppe Barbaglio scuote la bella testa, lievemente reclinata verso destra. Mi saluta. Se ne va tranquillo, lento pede, com’era venuto. Mortuus adhuc loquitur. Per lui parleranno i suoi libri.

Franco Ferrarotti, Roma