RICORDANDO LA SVOLTA IMPRESSA NELLA VOCE

L’invito che Carla ha fatto agli amici, dopo dieci anni dalla morte, di scrivere su Giuseppe giunge puntualmente come un richiamo dovuto sopratutto per chi, essendo psicoanalista, si sia trovato più volte ad osservare nel corso del lutto le variazioni a cui va incontro il destino incompiuto della voce amicale, che la memoria conserva in modo indelebile ed accresce negli anni.

Ci si potrebbe chiedere perché uno psicoanalista si soffermi su queste variazioni che possono sembrare delle sfumature trascurabili, ma é un fatto che l’analista anche normalmente borbotta in cuor suo con i suoi pazienti anche quando non ci sono, e dunque si accorge quando gli capita di cambiare voce tra amici, sia quando sono presenti che quando le persone non ci sono più.

Infatti anche gli enunciati che affiorano alle labbra nel corso di una cura prima di un’interpretazione, impiegano del tempo prima di venire alla mente, e quando arrivano non sono belli e pronti da ascrivere al proprio interlocutore così come sono al momento. Anzi, proprio quando assumono un carattere letterale troppo chiaramente definito é il caso di dubitare che sia quello il modo e il momento per proferirli. Di solito ci si pensa prima di parlare, si attende una ricomposizione delle proprie personificazioni interne che durante l’ascolto sono attivate e in conflitto tra loro.

Voglio dire che per gli psicoanalisti, come diceva spesso il collega Tonino Di Benedetto, originario di Sulmona (terra di Ovidio), c’è una pratica poco nota ma che si acquisisce nel corso degli anni per cui si diventa più accorti nei confronti delle metamorfosi a cui va incontro in certi momenti la voce, sia propria che degli altri come parlanti.

Il poeta Vittorio Sereni (Stella variabile, Garzanti,1981), lo dice così bene in una poesia scritta in occasione del compleanno dell’amico Attilio Bertolucci, che merita ora ricordarla per intendersi subito, senza perdersi in troppe definizioni: “In dormiveglia di là da quella porta. / Succede. Qualche volta. / Che a me un altro di me parli / fin dentro di me./(pag.80).

Risponderò quindi all’invito di Carla, figurandomi di parlare ancora con Giuseppe, studioso del Nuovo Testamento e in particolare di San Paolo, come se potessimo riprendere una conversazione rimasta interrotta, anche perché ora risento meno della soggezione che di solito avevo nei suoi confronti, essendoci incontrati quand’ero studente all’inizio della mia formazione psichiatrica.

Il punto su cui più volte ho provato ad interloquire ancora con lui riguarda la sua lunga ricerca sulla teologia delle lettere di Paolo (La teologia di Paolo, abbozzi in forma epistolare, 2001), sopratutto quando metteva in evidenza, accanto alla rinnovata confessione di fede dell’apostolo, la concomitante e ripetuta esperienza riflessiva, cioè il passaggio dal pensare intuitivo al pensare argomentativo, quello che Giuseppe amava definire come il vero e proprio pensare di Paolo”(Il pensare dell’apostolo Paolo, EDB, 2004, pag.127).

Si può dire che in questo modo, ovviamente in piccolo, cerco di seguire l’esempio dello studioso di letteratura padovano Enzo Mandruzzato (“I dèmoni”, Il Poligrafo ed., Padova 2006), che ha raccolto undici confessioni apocrife personali, immaginando di confidare al lettore il proprio dialogo interiore con figure di un passato remoto (da Pitagora a Nerone, oppure da Orazio a Paolo stesso): quel dialogo con un personaggio storico che il legame di fedeltà instaurato attraverso la lettura può permettere di ricreare e che riesce, nel suo caso, a proseguire nel tempo anche se sono trascorsi dei secoli. Come se la confidenza che deriva dalla frequentazione di un autore o di un’opera, permettesse all’amante della materia di legittimare il suo cercar di volerne sapere di più dell’autore, anche per proprio conto, rispetto a quanto viene riportato con maggior precisione dai biografi di professione.

Credo di aver già detto, nel corso di uno degli incontri dedicati a Giuseppe presso la Facoltà Valdese di Roma, che il nostro primo incontro avvenne in montagna a Corvara in Val Badia, in occasione di un corso estivo di teologia biblica organizzato dalla Fuci veneziana verso la fine degli anni sessanta.

Ricordo che a Corvara, quando lo incontrammo la prima volta, a noi che allora eravamo avidi di sapere se la teologia biblica “fosse di sinistra”, disse che tre erano gli enunciati a cui era giunto e su cui pensava di doversi attestare, cioè che: “il mondo é così, non può essere che così, nondimeno ciascuno può fare il possibile per migliorarlo”.

Ricordo che lo disse senza enfasi, con un tono di voce dolce, privo di risentimento, fiducioso che l’ultimo enunciato, come nel verso di Sereni, giungesse risoluto come una svolta.

Ma da studente ero troppo attento a quanto leggevo sulla carta, per cui ascoltando un altro non vedevo veramente la persona che era presente davanti a me. Ripensandoci ora, avrei dovuto apprezzare di più la concisione e sopratutto il tono affettuoso di quella voce.

A noi sembrò troppo poco la risposta di allora, e nonostante il fatto ci avesse entusiasmato la scientificità e il rigore con cui si accostava al testo biblico, lo scambio rimase come la conferma di un profondo fossato generazionale: per cui noi sessantottini, tra psicoanalisi e marxismo, ci sentivamo ormai geneticamente diversi dalla generazione precedente. Ma di questo, cioè della cesura allora così netta tra le generazioni ci fu modo anche in seguito di riparlarne, dato che anche Carla aveva poco più della nostra età ed era psicoanalista. Anche se riparlarne a Roma o a Venezia, lontani dalle montagne era diverso.

Ora invece la ripresa di quello scambio lontano é più che giustificata, sia perché la mancanza di Giuseppe mi ha portato ad accostarmi ai contributi di altri studiosi del suo campo, sia perché nel frattempo la sua presenza si é accresciuta interiormente, e come dice Sereni, la sua voce ha acquisito delle proprietà di cui prima non ero consapevole.

Per esempio credo di poter dire che il felice incontro successivo con il Rabbino Roberto Della Rocca, che ha condotto per anni la comunità ebraica veneziana (e che recentemente ha raccolto i suoi contributi sull’Antico Testamento in un volumetto dal titolo “Con lo sguardo alla luna”, editore Giuntina, 2015), sia stato in qualche modo patrocinato dalla presenza interiore di Giuseppe, permettendomi di raggiungere una certa integrazione con il mondo ebraico, cosa che sarebbe stata impensabile dieci anni fa.

Infatti nel capitolo dedicato a Mosè, Roberto Della Rocca si sofferma su un dettaglio prezioso (pag.160) riportato da un Midràsh in cui si osserva come nel momento in cui Mosè pervaso dall’ira spezzò le tavole della Legge, le parole che vi erano scolpite si fossero staccate dalla pietra ed avessero aleggiato nell’aria rimanendo intatte nel loro significato, conservando un carattere indelebile.

Qualcosa di simile che anche l’incontro successivo con l’opera del biblista francese Paul Beauchamp, legato allo psicoanalista J. Lacan, mi ha confermato ulteriormente. Per esempio quando definisce in termini orogenetici la sua proposta di una integrazione possibile tra i due Testamenti: parlando del Sinai e del Calvario come se vi fosse una continuità “da una montagna all’altra”, e ritorno (La loi de Dieu, d’une montagne à l’autre, Seuil, 1999).

Ora, se ho inteso bene, con la sottolineatura sul “pensare di Paolo” rispetto al rovesciamento a cui era andata incontro la sua credenza dell’apostolo, Giuseppe intendeva valorizzare il fatto che Paolo riformulasse in termini di pensiero e quindi su un piano più propriamente riflessivo la piana per così dire discorsiva a cui era approdata la sua concezione della carità (La prima lettera ai Corinzi, 1996), senza per questo cessare di interrogarsi ogni volta sulla natura del profondo sommovimento interiore che la conversione aveva provocato in lui.

In ciascuna delle lettere infatti, Paolo fa riferimento alla medesima esperienza (“cambiamento catastrofico”, nel lessico psicoanalitico di W. Bion), interpretandola come una “seconda nascita”, ma la formulazione con cui espone il suo pensiero su questo evento, avviene cercando di trovare ogni volta il linguaggio adeguato per tradurla in modo comprensibile ad un contesto comunitario per molti aspetti diverso dal suo.

Ora, è proprio su questo punto che il mio dialogo interiore con Giuseppe raggiunge la soglia di una richiesta di chiarimento a cui immagino Giuseppe avrebbe potuto rispondere proprio con quella voce di allora, che adesso sarei in grado di ascoltare pienamente.

Gli avrei chiesto: se la situazione estrema a cui Paolo fa riferimento é sempre la stessa ed ha tutte le caratteristiche di quelli che in ambito fenomenologico siamo soliti definire come “fenomeni saturi” (in J.L.Marion: cioè fenomeni in cui l’eccesso di intuizioni subentranti disorganizza totalmente l’assetto delle intenzioni possibili), non é legittimo chiedersi se l’episodio confusionale sulla via di Damasco avesse assunto per lui un tale carattere ri-fondativo che al di là di tutti i tentativi di riformulazione rimaneva impossibile esplicitare una volta per tutte?

Forse, rispetto al “fenomeno saturo” che aveva vissuto, ogni comunità con cui si identificava per cercare di venirne a capo a ragion veduta (après coup), gli forniva un lessico inadeguato che definiva quell’esperienza come un “a-priori biografico” (G.Agamben, in Critique, gennaio-febbraio 2017), non circoscrivibile in uno spazio e in un tempo definiti.

Succede come per le diverse vie di risalita in montagna quando per esempio si distinguono una via lungo la parete nord, una via ferrata, una via normale…: per le “situazioni limite” (K. Jaspers) invece non c’è mai “una via normale”. Ogni passo confida sull’invenzione ogni volta diversa di un nuovo modo di sentirsi aiutati.

Da qui la rivisitazione interminabile di quell’evento e la pluralità delle angolature per renderla comunicabile, attraverso per così dire l’immersione ripetuta nel “bagno sonoro” (Franco e Bianca Fornari), nella “piscina probatica” delle voci della comunità religiosa a cui di volta in volta si rivolgeva scrivendo.

Il legame affettivo che lo univa a quella pluralità di interlocutori, cioè ai componenti delle comunità che evangelizzava, aveva raggiunto una tale profondità germinativa da essere compatibile con il fatto di riuscire a ricostruire ogni volta il nesso indicibile tra la confusione ispiratrice con gli oggetti originari (genitori combinati, in S. Freud e M. Klein) e la fecondità espressiva ritrovata attraverso la varietà di linguaggio dei propri interlocutori. Era come fosse riuscito a mantenere vivo il nesso inscindibile di una doppia alterità: cioè sia nei confronti della metamorfosi interiore che aveva attraversato che dei tentativi di esplicitazione per esprimerla come testimone, senza tradirla.

Rendendola possibile d’ora in avanti anche per altri.

La sua grandezza, che possiamo definire “eu-demonica” perché risulta ancora attuale, consiste allora nel fatto che partendo da una situazione emotiva interna così idiosincrasica e contraddittoria da risultare incompatibile con la sua stessa coscienza, Paolo abbia raggiunto una disseminazione corale così ampia, da universalizzare il senso della comune fragilità mentale come fosse la forma di legame più proprio di una parentela più estesa.

Come psicoanalisti, noi diremmo che la sua genialità sul piano affettivo sta nell’aver fatto subire all’esclusività, che di solito caratterizza la comune appartenenza identitaria, una trasformazione così profonda da confrontarla con l’alternativa insita nella gioia di sentirsi riconosciuti nei limiti di una predilezione che sia compatibile con la libertà (vedi il contributo di F. Vouga alla Facoltà Valdese, sulla differenza tra esclusività e predilezione).

Parlo di genialità affettiva perché é una grandezza che va al di là delle diverse configurazioni culturali che assume la credenza all’interno della quale ogni convertito può riconoscersi. Arriverei a dire che la grandezza non sta tanto nel contenuto in sé e per sè della credenza in cui uno poi si ritrova, ma nell’estensione della “fenditura originaria” (S.Resnik, 1986) che la profondità del trauma ha raggiunto e che il soggetto è riuscito a conservare come traccia presso di sè, corrispondendovi in modo dovuto, cioè con la propria interminabilità trascrittiva.

Allora il particolare contributo di Giuseppe proprio su quel punto dell’esperienza di Paolo è aver documentato che il “pensare di Paolo” non deriva da una piana indolore definitivamente raggiunta a trasformazione conclusa, ma è una ripresa interminabile dell’esperienza traumatica attraverso la quale proprio la fragilità mentale, che comunemente viene intesa come una rivendicazione meramente narcisistica, custodisce allo stesso tempo la nostalgia di una dolcezza neo-natale più profonda, che é tutt’uno con l’origine stessa della capacità di pensare.

In questo senso, come scrive Roberto Della Rocca, quel soffio originario che si era solidificato sulle tavole della Legge per essere condiviso con tutti, non svanisce con la loro umana rottura da parte di Mosè, perché proviene da un altrove più profondo a cui solo l’esperienza della separazione e della perdita da diritto di accesso. La dolcezza sonora della voce amicale che la memoria custodisce ed accresce nel tempo, preserva le parole da un triste destino, ogni qual volta la colpa di non averle sapute ascoltare dal vivo quand’era il momento, finisce per solidificarle trasformandole in lettera morta (feticismo).

Gigi Boccanegra, Venezia