All’inizio di ottobre del 1953 entravano al collegio Lombardo di Piazza Santa Maria Maggiore, per avviare a Roma gli studi universitari presso la Gregoriana, alquanto, da buoni provinciali, spaesati, sei ragazzi dicianovenni, provenienti da diversi seminari d’Italia. Merita citare i loro nomi perché la composizione del gruppetto assumerà in seguito volti singolarmente differenziati e i suoi componenti saranno personaggi significativi per la chiesa italiana. C’è Battista Gregori, uno dei primi preti aderenti a Gioventù Studentesca, il movimento di don Giussani che preparò l’avvento di CL, il quale morirà molto giovane, e un altro che morirà in giovane età, il geniale insegnante di filosofia e teologia a Bologna, Cesare Milani, e poi c’è Giuseppe Barbaglio che i lettori di questo libro ben conoscono, c’è Giorgio Mazzacua che dopo l’ordinazione a prete, come Barbaglio, sceglierà la vita laica e diventerà un esperto di didattica della matematica, c’è Gianni Lajolo che sarà uno degli estensori del Concordato del 1984, poi diventato cardinale, Pier Luigi Mazzoni che sarà arcivescovo di Gaeta, e ci sono io, Severino Dianich. L’anno successivo si aggiungeranno, diventando compagni di corso all’università, Franco Ardusso e Gianpiero Bof, ben noti per le loro pubblicazioni a coloro che frequentano la letteratura teologica, Enzo Cortese ugualmente noto agli studiosi dell’Antico Testamento, Faustino Pinelli docente di teologia e vivace interlocutore nel dibattito culturale a Modena, Paolo Sardi, vicino collaboratore di Paolo VI poi diventato cardinale, Carlo Ghidelli, biblista, che sarà segretario della CEI e vescovo di Lanciano.

Si era creata fra noi un’amicizia a prova di fuoco, come lo dimostra il fatto che, salvo il caso di uno o due di noi (che non ho citato perché, per i casi fortuiti della vita, ne abbiamo perduto le tracce) e nonostante le distanze geografiche e il successivo differenziarsi dei modi di pensare e di operare nella chiesa con i cammini molto diversi, quando non divergenti, che poi ciascuno di noi ha percorso, è perdurata forte fino ad oggi.

Barbaglio veniva dal seminario di Lodi e si rivelò subito di rara intelligenza. Fra noi era il più studioso e spiccava, nella vivacità delle nostre discussioni sui temi più attuali di filosofia e di teologia, con frequenti fuoriuscite nella politica, brillava per la sua straordinaria capacità argomentativa. Il suo pensiero, allora, si nutriva fondamentalmente della tradizione neoscolastica, con la sua tendenza ad affidare anche i problemi della fede alla elaborazione, alla maniera cartesiana, di idee chiare e distinte e alle argomentazioni sillogistiche. E’ significativa la sua scelta di studiare per la dissertazione del suo dottorato il pensiero di Gabriel Biel, uno dei più sottili e difficili teologi fra i pensatori di tendenza occamista del Quattrocento. Fra noi, oltre a coloro che condividevano visione e metodi, che allora erano abituali, non mancava chi, invece, sentiva questo modo di ragionare come una camicia stretta per l’esperienza della fede. Le discussioni diventavano feroci, ma facevano crescere, grazie alla schiettezza del confronto, la nostra amicizia, che è viva ancora oggi. Sarà in seguito, passando agli studi della Sacra Scrittura nell’Istituto Biblico che Giuseppe svilupperà la sua competenza nell’esegesi biblica e allo stesso tempo elaborerà un suo nuovo modo di pensare, con un metodo attento alla storia, alle esperienze vissute, alla diversità delle culture. Non è stata solo una nuova metodica dell’elaborazione del pensiero, ma anche una nuova spiritualità che, intorno al concilio, ci ha invaso tutti e ha profondamente determinato il nostro modo di credere e di vivere, sia pure declinato in maniere diverse in ciascuno di noi. Bisogna individuarne la ragione, però, anche in ciò che accadeva negli anni immediatamente precedenti il concilio all’università Gregoriana, che stava vivendo allora una stagione straordinariamente felice. Accanto ai grandi vecchi della tradizione neoscolastica (fra cui Sebastiano Tromp che sarà il severo segretario della commissione teologica del Vaticano II) godevamo dell’insegnamento di maestri giovani e innovatori, come Flick, Alszeghy, Alfaro, Fuchs, Van Roo e quel singolare pensatore che è stato Bernard Lonergan. Gli studi biblici erano deboli, però ci si rifugiava, alcuni di noi, al Biblico per seguire i corsi di Lyonnet sulla lettera ai Romani.

Barbaglio vi affinerà, giovandosene poi anche nei suoi studi biblici, l’esigenza del rigore che già gli era connaturale, per cui nulla si deve affermare se non si è in grado di fornire le ragioni di ciò che si afferma, ma anche le spinte innovatrici che stavano fermentando la riflessione teologica grazie agli studiosi francesi della théologie nouvelle con il suo ressorcement, il gusto di andare sempre alle fonti bibliche e patristiche nell’affrontare le diverse questioni. Allo stesso tempo l’accento personalista e il forte senso della storia che la scuola più giovane della Gregoriana in quegli anni forniva con ampiezza e profondità, lo hanno aiutato a non rinchiudere gli studi esegetici dentro i confini della filologia e della critica storica, ma ad ampliarne gli orizzonti verso i problemi dell’uomo, dell’uomo d’oggi e di ogni uomo.

Riprendendo oggi in mano e sfogliando i suoi numerosi e voluminosi saggi, ricavo l’impressione che quel libro, dal titolo assai particolare, Il pensare dell’apostolo Paolo, del 2004, una delle sue ultime opere, possa essere assunto a ritratto spirituale di Giuseppe Barbaglio credente e studioso. In esergo egli vi poneva una citazione di Albert Schweitzer: “Paolo è il santo patrono di coloro che pensano”. Molti, ed egli stesso, hanno scritto sul pensiero di Paolo, sulla sua teologia, altri avevano anche tentato di scriverne la biografia, ma sono pochi quelli che si sono preoccupati di studiare di Paolo, apostolo e teologo, “non tanto il prodotto quanto il processo produttivo”, di penetrare “nel suo atelier di scrittore epistolare e prendere atto della sua attività di comunicatore che dialoga con le proprie comunità cristiane”, proponendo “una sempre nuova interpretazione del vangelo tradizionale, perché diventasse vangelo, lieta notizia per i diversi ascoltatori della sua parola”. Le due pagine di conclusione del libro sono intitolate: Il vangelo di ieri e di oggi. Ebbene, per Giuseppe, questo è stato l’impegno e la fatica di tutta una vita. Studioso rigoroso dei testi biblici, di cui ha affrontato, con un’acribia tutta sua, la fatica di tutte le analisi dei testi, necessarie su tutti i diversi loro versanti, ma mai come un lavoro fine a se stesso, per poter giungere alla fine a ridire il vangelo come il vangelo di oggi. Mai ha disdegnato, coerentemente, di collaborare con varie riviste di carattere divulgativo e restano disseminati in varie parti d’Italia i molti circoli e gruppi di appassionati lettori della Bibbia che hanno goduto della sua partecipazione, guidati dalla sua competenza di alto livello. A me, amico prete, ha dato sempre l’impressione, percepita con gioia, che, nonostante la sua scelta di non restare attivo nei quadri del ministero istituzionale della chiesa, egli in realtà abbia continuato ad esercitare fedelmente il suo munus docendi con tutta la ricchezza del carisma che il sacramento dell’ordine gli aveva donato.

Da questo atteggiamento spirituale però, da laico, egli ha derivato anche il suo impegno sociale e politico. Soprattutto il problema della guerra e della non violenza lo hanno profondamente coinvolto. Oltre a ricordare la sua partecipazione a pubbliche manifestazioni, bisognerà restargli grati del suo prezioso studio, intitolato Dio violento? Lettura delle Scritture ebraiche e cristiane del 1991, dei suoi contributi sul versante biblico, al Dizionario di Teologia della Pace e dei saggi raccolti nei volumi postumi, sempre delle Edizioni Dehoniane: Pace e violenza nella Bibbia e Il mondo di cui Dio non si è pentito.

Giuseppe Barbaglio, si deve dire in conclusione, è stato, non nelle forme eclatanti di chi ama il primo piano nei mezzi di comunicazione sociale, ma nel livello più profondo dello scavo intelligente del senso delle cose e delle situazioni, con gli strumenti della ricerca dei fondamenti nella parola di Dio e nella tradizione della fede, un significativo protagonista della storia della chiesa italiana della seconda metà del Novecento, che non potrà essere dimenticato.

Severino Dianich

Severino Dianich, Pisa