E’ vero, purtroppo: sono dieci anni che la persona mite, gentile, disponibile e sapiente di Giuseppe Barbaglio non c’è più. E questa mancanza si sente. Ma con altrettanta sicurezza sento che non è vuota formula retorica o consolatoria dire che egli non ha mai cessato di essere tra noi.
Credo che lo stesso sentimento sia condiviso da tutti quelli che hanno avuto occasione di leggerne gli scritti o di ascoltarlo nei suoi corsi presso la facoltà valdese di teologia a Roma o in qualcuno degli interventi a conferenze e convegni o infine, in modo più raccolto, in una delle tante comunità o gruppi biblici che hanno avuto occasione di ospitarlo.
La testimonianza che io posso portare è quella di un’amicizia profonda e riconoscente, di uno che ha avuto la ventura di stargli vicino di frequente e per molto tempo presso la Comunità cristiana di base di S. Paolo a Roma e nel gruppo biblico di quella Comunità. Tra di noi il suo nome e il suo pensiero sono anche oggi ripetutamente citati per chiarire passaggi importanti delle scritture ebraiche e cristiane e della storia del primo cristianesimo.

Il suo libro fondamentale: “Gesù ebreo di Galilea – Indagine storica” – I ed. Dehoniane 2002, è uscito quasi contemporaneamente alla traduzione italiana, presso la Queriniana, del I volume della monumentale opera di J. P. Meier “Un ebreo marginale – Ripensare il Gesù storico” e ne ha precorso, considerata la sua larga accoglienza presso i lettori italiani, il successivo sviluppo, giunto ora al IV volume, mentre si attende il V, forse conclusivo. Giuseppe ha fatto in tempo a leggere i primi tre volumi dell’edizione originale in inglese dell’opera del Meier, allora poco conosciuta in Italia, e li cita spesso nel suo libro condividendone generalmente i punti di vista.
Entrambi gli studi, infatti, con diversa articolazione e diverso approfondimento, sono frutto di una rigorosa esegesi storico-critica alla ricerca del Gesù storico e concordano nella premesse e nelle conclusioni. Essi si inseriscono in un filone di indagine che vanta origini lontane ed è stato ed è palestra di confronto tra illustri studiosi. Se mi soffermo ora in particolare su queste due opere è perché, a mio parere, rappresentano il completamento più aggiornato di tante ricerche e costituiscono simbolicamente una sorta di baluardo contro gli scetticismi e gli attacchi aperti al tipo di esegesi di cui si sono serviti gli autori. In che cosa consistano queste critiche si può capire bene leggendo la risposta dello stesso Barbaglio contenuta nell’appendice alla II edizione – 2005. Esse provengono da studiosi e figure istituzionali, tra le quali lo stesso Papa Ratzinger (specialmente nel suo studio in più volumi su “Gesù di Nazaret”), che sembrano avere difficoltà nel tenere distinti scopi e limiti dichiarati dell’esegesi storico critica applicata alla ricerca su Gesù dalle elaborazioni teologiche sulla sua figura avvenute nella comunità cristiana post-pasquale.
In altre parole questi critici temono, in modo ingiustificato ad avviso mio e di molti, che segnalare la non storicità di tante affermazioni attribuite a Gesù o su Gesù nei vangeli tolga a questi autorevolezza ed efficacia e mini la base sulla quale strutture e dogmi ecclesiastici sono stati costruiti.
Un esempio può aiutare a capire meglio il problema. Se l’esegesi storico- critica, utilizzando criteri di logica stringente, giunge alla conclusione che i cosiddetti vangeli dell’infanzia in Matteo e Luca non sono storici, cioè non riflettono eventi storicamente accaduti così come descritti ma, nella migliore delle ipotesi, sviluppano un nocciolo storico con narrazioni interpretative, essa ha raggiunto il suo scopo e qui si ferma. Non è compito suo, ma dei teologi e degli storici della Chiesa capire chi e perché quelle parti dei vangeli, non storiche, ha composto. Si potrà allora vedere che alcune di queste elaborazioni, create a scopo apologetico o edificante sono perfettamente coerenti con il pensiero di Gesù (per esempio il posto dei poveri nel regno incipiente è ben simboleggiato nella storia della sua nascita povera e indifesa, nell’adorazione dei pastori, nella precoce reazione del potere di Erode che lo vuole uccidere perché si sente minacciato, ecc.). Altre, per esempio il concepimento verginale di Maria, non sembrano invece direttamente connesse al messaggio del Nazareno, ma frutto di una elaborazione teologica che comincia a pensare alla divinità del Messia morto e risorto. Questo aspetto della verginità, in particolare, è stato grandemente enfatizzato nel tempo ed ampliato a comprendere anche il post-partum nonostante evidenti elementi in contrario negli stessi vangeli (la presenza di inequivocabili fratelli e sorelle, la circostanza segnalata da Matteo 1,25 che egli (Giuseppe) non la “conobbe” fin quando partorì il figlio, ecc.) ed è stato creduto un bene in sé dando luogo a equivoci, cedimenti a forme paganeggianti di culto e fraintendimenti a scapito specialmente delle donne. C’è da tener conto in questo caso – si dice- delle esigenze della religiosità semplice e popolare. D’accordo, ognuno dovrebbe essere libero di trarre le sue conclusioni, ma in ogni caso si tratta di una questione di misura che sarebbe più facile trovare se lo studio delle scritture fosse più diffuso e più contenuta la tendenza a dogmatizzare opinioni ed esigenze particolari.

Che dire poi degli studi di Barbaglio su Paolo di Tarso e sui rapporti tra l’apostolo e Gesù? Basti pensare ad alcuni dei suoi libri, i cui titoli sono già di per sé eloquenti: “Il pensare dell’apostolo Paolo” (Dehoniane, 2004) e “Gesù di Nazaret e Paolo di Tarso” (id. 2006). Per non parlare del monumentale commento alla I Corinzi (Dehoniane 1995). Da queste opere emergono più chiare le idee sul delicato tema dell’apporto di Paolo alla Chiesa nascente, cioè su quanto questo grande teologo e creatore di comunità abbia ricevuto dell’eredità Gesuana e quanto elabori di suo o sotto l’influsso delle comunità ellenistiche, prima combattute. (1) Si sa che alcuni ritengono Paolo il vero fondatore del cristianesimo e più o meno velatamente lo accusano di aver frainteso o falsificato il messaggio di Gesù. Si tratta di giudizi sommari, che da tempo gli studiosi seri come Barbaglio hanno superato, dimostrando il grande spessore teologico di Paolo e la sua incidenza sul cristianesimo nascente. Anche qui un esempio per dimostrare come il recupero del pensiero genuino di questo grande interprete sia fecondo di insegnamenti purtroppo assai spesso e precocemente dimenticati dalla Chiesa istituzionalizzata.
Nel libro sopra citato per primo, il capitolo IV, intitolato “Il vangelo della morte liberante e oblativa di Cristo” , dimostra in modo ineccepibile che la lettura sacrificale della morte di Gesù – che Barbaglio afferma essere minoritaria nel cristianesimo primitivo – è del tutto estranea a Paolo. Essa diventa prevalente in epoca medievale e porta ad una organizzazione della Chiesa more sacerdotali forse determinata dal contesto storico ma del tutto estranea alle intenzioni di Gesù. Se infatti la sua morte è un sacrificio espiatorio per placare l’ira del Padre sorta e rimasta tale e quale per millenni a causa della trasgressione di Adamo ed Eva, come pensa per esempio Anselmo d’Aosta, santo e dottore della Chiesa, occorreranno sacerdoti, naturalmente uomini, che rinnovino questo sacrificio. Questi sacerdoti poi, entreranno in una sfera sacrale nella quale i profani non sono ammessi e saranno dotati di un potere speciale, che si va a ripescare impropriamente (2) nell’ultima cena. Tale differenza, come afferma ancora oggi il catechismo della Chiesa cattolica, non è di grado ma “di sostanza”. Ma in questo edificio dove è andata a finire la grande visione di Paolo di una Chiesa “corpo di Cristo” dove tutte le membra, dalle più nobili alle più modeste, queste in particolare più degne di attenzione, giocano un ruolo essenziale (I Cor 12, passim)? Dove la sua intuizione che “non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28)? A lungo andare, poi, questo ritorno al concetto sacrificale, dominante nella religione pagana, si è reso responsabile di quella frattura tra laici e clero, tra uomini e donne che tanti danni ha portato alla Chiesa.
Giuseppe aveva ben chiari questi concetti e non aveva paura nel condividerli pubblicamente destando involontario scandalo. Ricordo che durante una conferenza a Fregene, una cittadina di mare vicino Roma, fu aspramente redarguito dal parroco del luogo quando osò dire che l’inciso “in sacrificio”, contenuto nel canone della messa, era stato introdotto in epoca moderna dalla Chiesa istituzionale “subdolamente” non trovando riscontro nelle parole di Gesù pronunciate nell’ultima cena e tramandate nel Nuovo Testamento. Il parroco, dopo avere a gran voce interrotto Giuseppe: “Come si permette lei di insinuare che la Chiesa faccia alcunché “subdolamente”? si alzò e se andò con alcuni (pochi) parrocchiani senza volere o saper obiettare nulla nel merito, vittima di una incomunicabilità che è l’opposto dell’insegnamento di Gesù e delle aperture al dialogo che caratterizzano oggi la pastorale di papa Francesco.

In conclusione, il pensiero di Barbaglio va nel verso auspicato da Paolo in I Cor, 3, 1-2 (ripreso in Eb 5, 13-14) e cioè che sarebbe ora di nutrire chi si sente attratto dalla testimonianza di Gesù di Nazaret con cibo solido, abbandonando il latte dei bambini. Le favole sono belle, ma rischiano di provocare dolorose disillusioni.
I tentativi di scrivere “la storia della vita di Gesù” , tuttora fiorenti, si sono ormai dimostrati velleitari. Si possono scrivere romanzi sulla vita di Gesù, opere in cui c’è poco di storico e molto di fantasioso. Purché si sappia che si tratta appunto di fiction (termine che Barbaglio usa nelle sue opere) perché troppo pochi sono i dati storici che su di lui abbiamo per consentirci di andare oltre.
E per chi teme che le ricerche dell’esegesi storico-critica lascino in ombra o minaccino la fede, viene a proposito riportare poche parole dall’ultimo capitolo (XIV) del “Gesù ebreo di Galilea” (intitolato “Fede di Gesù e fede in Gesù” ) : “In questo modo sarà possibile stabilire un confronto tra la fede di Gesù e la fede in Gesù e vedere se effettivamente sul “fossato della pasqua” passa almeno un ponticello a unire le due sponde. In ogni modo queste restano una di qua e l’altra di là, per cui è possibile e anche giustificato camminare su una riva, quella del Nazareno e non voler passare all’altra, quella cristiana” (pag. 594).

Se però (aggiungo io e non credo di tradire il pensiero di Giuseppe) decidessimo di passare il ponticello e di seguire il difficile sentiero dell’esegesi storico-critica, quello che alla fine avremmo tra le mani sarebbe qualcosa di solido e, con diversi gradi di probabilità, inoppugnabile. Inoltre, non interponendo tra noi e Gesù alcun diaframma che non sia verificabile, ci si renderebbe liberi di ripartire dalla sua voce che ha annunciato in Galilea e a Gerusalemme l’avvento di quel Regno che “è tra (dentro) di voi” (Mt 12,28) e che noi quindi siamo chiamati a portare avanti. A frammenti, naturalmente, fino a quando potremo tornare a condividere con lui e con tutti, specialmente con i poveri e gli emarginati, il pane e il vino della nostra vita.

Antonio Guagliumi, marzo 2017.

(1) Si veda su questo punto anche Romano Penna: “Paolo e la chiesa di Roma”
(Paideia 2009), cap. I
(2) Per verificare la legittimità dell’avverbio “impropriamente” si rinvia al prezioso libretto di Maria Caterina Jacobelli “Sacerdozio, donna, celibato” pubblicato nel 1981 da Borla ed ancora perfettamente valido.

Antonio Guagliumi, Gruppo biblico della comunità di San Paolo Roma