VASTI

Che cos’è umano ?

Scuola di ricerca e critica della antropologie

Seminario del 1° febbraio 2004

Paolo di Tarso e la critica al “nomos”

del prof. Giuseppe Barbaglio

Pasquale Bazoli: Prima di dare la parola al prof. Barbaglio, vorrei leggere le domande che Raniero La Valle ha scritto e che avrebbe piacere ci fossero presenti in questo nostro incontro:

– di cosa parla Paolo quando si riferisce al nomos ;

– che relazione c’è tra il nomos di cui parla Paolo ed il nomos dei greci e dei romani;

– che cosa Paolo mette al posto del nomos;

– che fine fa il nomos se passa l’alternativa indicata da Paolo;

– se il discorso di Paolo sul nomos vale anche per l’ordinamento, il nomos in cui si

esprime e si espande l’attuale civiltà dell’Occidente, fino alla legge del mercato.

Giuseppe Barbaglio: Voglio cominciare contestualizzando brevemente Paolo nel mondo greco ed in quello ebraico, lui che può essere detto culturalmente uomo dei due mondi. Questo ci permette di coglierne esattamente la posizione.

  1. Il nomos nel mondo greco

Innanzi tutto l’origine e la natura divina del nomos, almeno nella parte antica della grecità. Qualche citazione: Dione Crisostomo afferma che “il nomos è veramente il figlio di dio”, oppure anche “il dio più grande per gli uomini è il nomos”. Si dice ancora che “il nomos è il dono degli dei”, ma si aggiunge anche che è “il dono dei grandi legislatori del passato”, con ciò riconoscendo naturalmente la presenza di legislatori umani.

La seconda caratteristica interessante, perché ne vedremo il parallelismo con Paolo, è il nomos come fonte di giustizia, rettitudine, cioè detto in termini greci di dikê; l’uomo è giusto e retto quando osserva la legge. Platone dice: “Il fine della legge è la giustizia, la rettitudine”.

Poi, a partire soprattutto da Atene, abbiamo il nomos politikos, cioè la legge, la norma che vale nella città, nello stato, che vale per i cittadini; quindi chi non è cittadino e non ha diritto di cittadinanza, non ha neppure il nomos, non appartiene al mondo della legge. Così le minoranze etniche erano senza nomos, erano cioè anomoi. Il nomos politikos era riservato ai privilegiati; dunque una grandezza per sé escludente. Ciò appare assai interessante, perché vedremo che la stessa caratteristica avrà la Torah ebraica. Aristotele dirà che “i nomoi [le diverse leggi ed i diversi ordinamenti della città] sono l’anima della città”. Sempre Aristotele aggiungerà che “dove non comandano i nomoi, non c’è neppure la politeia (vale a dire la vita del cittadino, lo stato). Nel mondo greco rileviamo, peraltro, anche periodi successivi di crisi del nomos politikos valevole per la città e lo stato. Tutti sappiamo della grande tragedia di Sofocle, l’Antigone, dove si racconta che la legge scritta della città, impersonata da Creonte, condanna Polinice, fratello di Antigone, ribelle in armi contro la città di Tebe e ucciso, a restare insepolto, che era lo sfregio massimo a cui la legge della città condannava un nemico. Ma la sorella Antigone, in opposizione a quella legge, ed affermando di essere stata “chiamata dagli dei come messaggera dell’amore”, fa valere un’altra legge, divina, non scritta. Anche la legge della città (nomos politikos) era una legge di origine divina, poi codificata e messa per iscritto, nei confronti della quale Antigone fa valere un nomos orale, non fissato, non scritto, tradizionale, anch’esso di origine divina, obbligo stringente per lei, che la porta a sfidare la legge della polis ed a morire per obbedienza ad un’altra legge che considera superiore: la legge della parentela e della fraternità.

Analogamente, per certi versi, avviene per Socrate, il quale manifesta un enorme rispetto per la legge della città, ma, come dice Senofonte, “preferì morire rispettando le leggi, piuttosto che vivere trasgredendole”. E’ chiaro che Socrate, che dirà: “Voi fate il vostro dovere, ma io non accetto questa sentenza”, afferma chiaramente la sua netta opposizione a questo nomos che porta alla morte un innocente, e finisce per contestarlo.

Sulla stessa linea, ad un certo punto nel mondo greco appare – e Paolo lo cita chiaramente in Rom 2 – l’agraphos nomos, cioè una legge non scritta, che nel nostro linguaggio potremmo definire legge naturale: essa inerisce al fatto stesso di essere uomini e può essere coniugata anche al plurale, gli agraphoi nomoi. Ora questi agraphoi nomoi si pongono, se non in alternativa, in qualche modo accanto al nomos scritto dello Stato.

Finalmente il pensiero degli stoici che di fronte al nomos della città o dello Stato, a questi ordinamenti cioè che obbligano i cittadini alla loro osservanza per essere considerati cittadini giusti, onesti e retti, fanno valere una legge della natura (nomos tês physeôs), una legge del mondo: il mondo è ordinato secondo una norma suprema di ordine, la stessa natura che è la vera divinità. C’è un detto famoso dell’imperatore filosofo Marco Aurelio che afferma: “Tutto viene dalla natura, tutto sussiste nella natura e tutto va verso la natura”, che è veramente interessante perché Paolo, in 1 Cor 8,6, usa esattamente le stesse parole ma attribuendo questa funzione non alla natura ma a Cristo . E la moralità propagata dagli stoici non consiste nell’osservanza della legge della polis, ma nell’essere in armonia con la legge del mondo, e tutto si valuta in relazione al fatto se un comportamento sia o meno trasgressivo dell’ordinamento della natura e del mondo. Anche questo è interessante perché Paolo, in Rom. 1, riprende questo concetto quando, condannando l’omosessualità sia maschile che femminile, parla appunto di comportamenti che hanno scambiato il rapporto sessuale naturale con quello contro natura.

  1. Il nomos nell’ebraismo biblico

Nell’ebraismo biblico naturalmente la torah rappresenta la legge divina, che poi viene codificata nei cinque libri che costituiscono appunto la Torah. Sappiamo però che nell’ebraismo la Torah non esaurisce la Bibbia, che si è andata arricchendo di altri testi quali i Profeti, nebiim (Giosuè, Giudici, Samuele, re; Isaia, Geremia, Ezechiele e i dodici profeti minori), e gli Scritti, ketubim, che comprendono scritti di genere diverso (Giobbe, Salmi, Proverbi ecc.).

La Torah però sussiste all’interno del quadro più generale del patto, nomos tês physeôs, stretto da Dio con il popolo, con un popolo che è da lui eletto, scelto per grazia. “Voi eravate i più piccoli, non avevate alcun merito, eppure Dio ha scelto voi per stringere con voi un patto”, confessa il Deuteronomio. Siamo di fronte ad una unilaterale iniziativa di Dio, iniziativa di grazia, ma quando il popolo entra a far parte di questo patto c’è l’obbligo della legge. L’osservanza della legge non è condizione per entrare nel patto, ma per restarci: Dio ha collocato quel popolo in uno spazio di grazia, di predilezione, di amore e questa condizione comporta l’obbligo della legge. Se poi si disobbedisce alla legge, questa stessa ha previsto l’esistenza di riti e mezzi in generale per recuperare l’appartenenza al popolo del patto. Cosi se si disobbedisce alla legge, si devono fare sacrifici espiatori e purificatori; se si è derubato agli altri si deve restituire il mal tolto, ecc. Il tutto per poter recuperare il proprio posto all’interno del patto.

Significativi per comprendere l’orgoglio degli ebrei per il possesso della legge divina del Sinai sono in proposito alcuni passi di Giuseppe Flavio, Contra Apionem, libro 2°: “Egli -Mosè- pose come norma e come canone la legge, perché vivendo sotto di essa come un padre e signore, non peccassimo//….bisogna ascoltarla [la legge], ma ogni settimana, abbandonate le altre occupazioni, ordinò che ci si riunisse per ascoltare la Legge e la si imparasse con precisione//….Ma noi siamo stati persuasi che la legge fu istituita fin dalle origini per volontà di Dio e sarebbe empio non osservarla//….quale potrebbe essere più bello e più giusto di un sistema che pose Dio a capo di tutto, che diede ai sacerdoti l’incarico di amministrare per tutti le questioni più importanti, e affidò al sommo sacerdote la guida degli altri sacerdoti?”. In breve, una legge che viene esaltata, letta durante il sabato ed addirittura, nell’ultimo passo, definita immortale: “….La legge resta per noi immortale –athanatos– e non c’è Giudeo, per quanto lontano dalla patria, per quanto terrorizzato da un padrone crudele, che non tema più di lui la legge”.

Questo sistema religioso che coniuga strettamente patto, elezione e legge è stato chiamato da Sanders “nomismo pattuale” perché esprime la centralità della legge ma dentro il patto. La legge non è la grande realtà assoluta, che è invece il patto, anche se è vero che essa ha una posizione di notevole importanza. Questo per dire anche che nel nomismo pattuale centrale è il codice della gratuità. Non si può infatti dire, come è stato detto per tanto tempo e propagandato dal luteranesimo in poi, che l’ebraismo è una religione legalistica, del merito, in contrapposizione al cristianesimo basato sulla grazia, anche se è vero che il rispetto, l’obbedienza alla Torah rappresenta una condizione per restare nel patto. Perché per chi si ritrova all’interno del patto, la salvezza ultima è ancora grazia; non è che Dio alla fine calcola come uno si è comportato e tira le somme. Non è così: certo la salvezza ultima dipende anche dal fatto di essere nel patto, ma va al di là dell’osservanza, perché l’ultima parola è sempre la grazia.

Interessante soprattutto è il significato che assume la Torah nel rapporto con gli altri popoli: Israele è l’unico popolo di Dio, ‘am in ebraico, ho laos in greco, tutti gli altri popoli sono le genti, ta ethnê in greco e i goiim in ebraico. Il significato che assume quindi questa legge è esattamente quello di un muro di separazione, come viene espresso molto bene nella “lettera di Aristea”, lettera pseudepigrafica del tempo appena precedente Cristo, in cui si dice: “Dio con la Torah ci ha circondati con una siepe”, poi parla di un muro, muro di bronzo, per la separazione dalle genti, dai “senza legge” (anomoi). La Torah ha quindi questo valore decisivo di segnare la separazione, analogamente al nomos greco che aveva quello di separare “i cittadini” dagli altri.

Della Torah ancora interessante è ciò che io chiamerei l’etnocentrismo religioso: nel sistema religioso del nomismo pattuale, che tiene insieme strettamente il patto, la legge e il popolo eletto, la legge costituisce il privilegio degli uni, di coloro cioè che sono dentro il patto, degli eletti, mentre gli altri sono fuori; è dunque una grandezza particolaristica escludente per sua natura. Paolo poi criticherà questo sistema chiuso e darà una lettura della tradizione religiosa ebraica aperta al mondo degli esclusi; ma la sua interpretazione è andata contro un sistema centripeto: anche i gentili, gli esclusi, possono certo inserirsi, ma integrandosi, diventando giudei attraverso la circoncisione e l’osservanza delle prescrizioni della legge, che nel periodo successivo del giudaismo rabbinico sarà articolata in 613 comandamenti e divieti.

Si noti bene che l’ebraismo, e poi il giudaismo, non è particolarista, come spesso si è detto; o quanto meno va chiarito cosa si intenda con questa affermazione. Ritengo che si possa parlare di un universalismo centripeto, nel senso cioè che tutti gli altri che sono fuori, possono entrare nel patto rinunciando però alla loro identità ed essere assimilati. Ma fino ad un certo punto, perché anche se sottoposti alla circoncisione, i gentili convertiti non saranno mai uguali ai discendenti della stirpe di Abramo. Ci troviamo di fronte, quindi, ad una concezione etnocentrica, che peraltro era di due tipi: una più rigorosa affermava che chi voleva entrare nello spazio della salvezza doveva assimilarsi radicalmente accettando la circoncisione, ed una meno vincolante per cui si poteva entrare nel patto restando incirconcisi ma dichiarandosi monoteisti e rispettando alcune regole generali, quali i comandamenti di Dio dati a Noè dopo il diluvio universale.

  1. Paolo di Tarso

Questa, a grandi linee, è la situazione del mondo greco e del mondo ebraico in cui Paolo si inquadra. Sappiamo che egli era bilingue e veniva da Tarso, grande metropoli culturale in cui spiccava la presenza di scuole filosofiche. Era quindi influenzato da questo mondo, anche se non dalle accademie filosofiche, bensì dalla filosofia popolare, ad es. dalla Stoa e dal cinismo. Il suo grande pregio è stato quello di aver saputo “vendere” un “prodotto” palestinese del tutto locale, limitato e relativo ad un piccolo mercato, sul grande mercato culturale del mondo greco.

In questo contesto egli affronta il problema della legge, del nomos; ma non lo fa come un teorico nel chiuso della sua stanza che va elucubrando questa tematica, bensì come uomo d’azione: egli era soprattutto un missionario dell’annuncio del vangelo nel mondo. Però, per nostra fortuna, non si è limitato all’azione, ma ha pensato ed interpretato la sua azione, ha voluto capire e far capire ai suoi interlocutori le ragioni della sua missione e del vangelo annunciato. Chiaramente molti aspetti del mondo di allora sono mutati oggi, ma le ragioni fondamentali da lui date restano in tutto il loro valore di lettura profonda del vangelo di Cristo annunciato in campo aperto.

Paolo è stato impegnato nella missione ‘propagandistica’ del vangelo non presso gli ebrei, dove il problema della legge non presentava difficoltà, ma presso i goiim, i pagani, quelli senza legge (gli anomoi), dei quali, in Gal. 2, 12, lui stesso dice: “Noi Giudei di nascita” -che abbiamo cioè la legge- “ e non peccatori di origine pagana”: non vuol dire che commettono peccati, ma che in quanto incirconcisi, secondo la logica del patto sinaitico, sono in uno status di peccato, di esclusione dalla salvezza. Il suo problema è quindi quello di mostrare come introdurre gli anomoi, i senza legge, gli esclusi, nello spazio della salvezza, rendendoli da esclusi inclusi. Il giudaismo aveva, come abbiamo visto, la sua soluzione: per includere i senza legge è necessario che essi rinuncino alla loro identità per accettare, in misura più o meno massiccia e integrale, la Torah, quanto meno il monoteismo ed alcune norme fondamentali della legge. Comunque, lo ripeto, anche nel caso di accettazione radicale della legge, il gentile non raggiungeva la dignità religiosa di un ebreo di discendenza abramitica.

  1. Il vangelo di Paolo annunciato ai Galati e ai Romani

In Galazia, cioè nei centri della provincia romana di Galazia, i gentili della zona erano stati evangelizzati da Paolo con l’annuncio di un vangelo della libertà dalla circoncisione e dalla legge. Ma erano poi subentrati altri missionari giudeo-cristiani che affermavano che non era sufficiente credere in Cristo, restando incirconcisi, per il loro ingresso nello spazio della salvezza: credere in Cristo era senz’altro importante ma era necessaria anche la circoncisione, perché la discendenza da Abramo avviene nel segno della circoncisione, come dimostra lo stesso Gesù che era stato circonciso.

Allora Paolo dice con forza di essere testimone e annunciatore dell’autentico vangelo di Cristo e che l’altro vangelo annunciato dagli avversari giudeo-cristiani integralisti di Galazia è una contraffazione del vero vangelo. La lettera ai Galati nasce in questa contrapposizione e lotta titanica tra due vangeli e due evangelisti. E dichiara senza mezze misure che il preteso vangelo predicato da quei missionari giudeo-cristiani, vangelo che abbina Cristo alla legge, altro non è che un pervertimento dell’unico vangelo, quello annunciato da lui e da lui ricevuto da Dio per “apocalisse” divina: “nessuno me lo ha insegnato, Dio mi ha disvelato il Figlio suo”. Questo vangelo, l’unico autentico vangelo, è il vangelo della libertà dalle opere della legge, il vangelo che è lieta notizia per i senza-legge (gli anomoi), che non devono cadere sotto il dominio della legge. La loro posizione di fronte al Dio di Gesù Cristo e al vangelo annunciato da Paolo è la stessa di quelli che hanno il nomos, i giudei. Il processo di salvezza, in altre parole, avviene a parità di condizioni. É questo il punto decisivo del contrasto e del conflitto perché, come si è visto, anche nel giudaismo era previsto che i gentili o i pagani potessero entrare nello spazio della salvezza, ma non a parità di condizioni, perché dovevano prima essere assimilati, giudaizzati, rinunciare alla loro identità: solo così potevano diventare giusti, potevano raggiungere una situazione di giustizia, cioè di rettitudine di fronte a Dio e di fronte agli altri.

La tesi di Paolo è che lo stato di giustizia o di rettitudine, ultimamente la salvezza, si raggiunge non in forza delle opere che la Legge prescrive, in primis la circoncisione, ma in forza della pistis, della fede, che Paolo intende come affidamento all’iniziativa di Dio. Si potrebbe obiettare che l’ebraismo diceva che la salvezza si ottiene a condizione di osservare la legge, e che tra le opere prescritte c’è il credere; dunque qual è allora la differenza sostanziale? La differenza sta nel fatto che la pistis, questo affidamento all’iniziativa di Dio, non è qualcosa che l’uomo in qualche modo realizza, bensì l’ascolto della parola di Dio che questa è capace di suscitare, essendo non pura notificazione, bensì forza che produce l’adesione dell’ascoltatore, se non oppone un rifiuto deciso. La differenza quindi non sta nel fatto della gratuità o meno dell’intervento di Dio, perché la gratuità è presente anche nel giudaismo, ma nel fatto che Paolo ci presenta una gratuità qualificata dal dono di Cristo. Egli esclude le opere comandate dalla legge e fa valere la sola fede, affidamento al Dio di Gesù Cristo suscitato dall’annuncio della parola. Perché se noi accostiamo la legge a Cristo, come volevano i suoi avversari, Cristo non è più un salvatore autosufficiente, ma ha bisogno di un supplemento. Non è dunque evento ‘escatologico’, luogo e sacramento in cui avviene la svolta della storia. Come tale deve essere unico, solus Cristus, che risponde alla sola fides. Se riconosco la legge, afferma Paolo, nego Cristo, nel senso che non lo riconosco nella sua autosufficienza salvifica; lo riduco ad un momento sia pure importante ma non decisivo della storia. Si noti come la sua critica alla Torah è fatta per salvare lo spessore salvifico di Cristo. Per questo egli non esita a buttare a mare la Torah.

E se il nomos separa, Cristo unisce, è il fattore unificante l’umanità. E non si obietti che Paolo assume pur sempre come normativo un elemento particolare, la fede. Questa come affidamento delle persone all’iniziativa di grazia del Dio di Gesù Cristo, non è un elemento particolaristico, non essendo un fattore culturale, perché è qualcosa che inerisce alla persona in quanto tale e quindi appare una grandezza universalistica, aperta a tutti i popoli che conservano la loro particolarità culturale. Paolo, in altre parole, non dice, per esempio, agli ebrei che debbono rinunciare alla circoncisione; possono tenersi la loro circoncisione, che è, nella sua visione, solo una particolarità culturale, non decisiva per l’essere dentro o fuori dello spazio della salvezza; egualmente dice agli incirconcisi che tali restino. Quando dice che non c’è circoncisione e incirconcisione, non c’è maschio e non c’è femmina, non c’è schiavo e non c’è libero, non nega le differenze che restano tutte e costituiscono anzi delle potenzialità; ma non sono differenze che rappresentino posizioni di privilegio per gli uni e di handicap per altri in rapporto al loro destino di vita e di morte.

Un filosofo francese, marxista-leninista, Badiou, ha scritto un libretto interessante su Paolo, affermando di essere rimasto suggestionato dal suo pensiero in cui ha trovato un universalismo originale rispetto all’universalismo filosofico. Questo è un universalismo astratto: tutti gli uomini sono uguali perché hanno tutti la natura umana. È un universalismo che non tiene dentro di sé le differenze e che non rende ragione delle concretizzazioni storiche della natura umana, delle differenze culturali, religiose, etniche. Mentre Paolo è stato capace di pensare un universalismo concreto che si realizza in Cristo: dentro il rapporto con Cristo – “In Cristo Gesù siete tutti un solo essere” – le differenze vengono mantenute ma depotenziate. Questo è il punto vero che Paolo ha colto.

  1. Abramo, prefigurazione del vangelo, la promessa e l’esclusione del nomos

E’ interessante la lettura che Paolo fa di Abramo. Egli non ha voluto minimamente, per così dire, uscire dall’ebraismo, nonostante gli ebrei lo sostengano definendolo traditore della legge. Il vero traditore dell’ebraismo è stato Marcione, che a Roma nel 150 d.C. dichiarava che si doveva buttare a mare tutta la tradizione ebraica di un Dio creatore, malvagio e violento e che ci si doveva tenere Gesù Cristo e il Dio che in lui si è manifestato come annunciato da Luca e da Paolo, mentre tutti gli altri scritti cristiani delle origini, come Marco e Matteo e Giovanni ecc., dovevano essere eliminati perché legati alla tradizione del Dio veterotestamentario creatore e malvagio.

Paolo in realtà conserva la tradizione ebraica, anche perché era impensabile ai suoi tempi che si potesse presentare una religione assolutamente nuova, senza radici; era necessario collegarsi ad una religione che avesse una grande tradizione; ma lo fa con una sua lettura dell’eredità ebraica delle Sacre Scritture. Per così dire egli bypassa Mosè ed il Sinai, elemento discriminante a causa della legge e della circoncisione, e risale all’indietro collegandosi con Abramo in cui vede una prefigurazione del vangelo di Cristo, un prevangelo, espresso nella famosa promessa di Gen. 12: “In te saranno benedette tutte le nazioni”. Paolo salta Mosè, il patto del Sinai, la legge ed arriva a Abramo, la figura della fede e della promessa. E oppone al nomos mosaico la promessa patriarcale: il nomos è venuto 430 anni dopo Abramo e non può pretendere di annullare la promessa, anzi è il nomos che, avendo avuto un compito relativo nel corso dei secoli, deve togliersi di mezzo e farsi da parte mentre resta in tutto il suo valore la promessa e la fede che è affidamento a questa promessa divina di benedizione salvante (cf. Gal. 3).

Questa operazione fatta da Paolo è interessante perché nel giudaismo si era subordinato Abramo a Mosè, inserendo quello nello schema di questo. Si diceva infatti che Abramo ha osservato la legge prima ancora che la legge fosse data, come mostra Gen. 22, quando Dio dice ad Abramo di offrirgli in olocausto il figlio Isacco e il patriarca obbedisce. Dunque Abramo era compreso come l’osservante della Legge e il circonciso; di conseguenza i figli di Abramo sono gli osservanti della legge ed i circoncisi. Ma Paolo vi contrappone la sua lettura della Genesi e della figura di Abramo: in Gen. 15,6 si legge: “Egli, Abramo, credette in Dio e gli fu computato a giustizia”. Dunque la giustificazione di Abramo non è per nulla legata alla circoncisione ed alla legge, che viene dopo, ed Abramo, che è stato giustificato solo in base alla fede, è esattamente il tipo del pagano di oggi. La circoncisione che viene dopo è soltanto un sigillo di una giustizia che c’è già, come Paolo preciserà in Rom. 4.

Voglio insistere: nel giudaismo Abramo era stato assorbito dentro il “patto del Sinai”, e quindi all’interno della legge, elemento escludente. Paolo taglia fuori Mosè, la legge ed il Sinai e recupera Abramo come icona della fede e della promessa, per cui può contestare l’evidenza della tradizione ebraica della famiglia uni-etnica di Abramo, i discendenti etnici del patriarca che hanno la legge, sono nel patto del Sinai, sono circoncisi, il segno dell’alleanza stampato nella carne. Invece per Paolo la famiglia di Abramo comprende tutti, circoncisi e incirconcisi; tutti a parità di condizioni sono figli di Abramo perché Abramo è la figura della fede, colui che ha accettato la promessa e si è affidato a Dio. Egli è per la famiglia multietnica di Abramo.

Si tratta di una grande operazione culturale. Paolo dice al giudaismo e ai suoi critici di Galazia che hanno una interpretazione assolutamente illegittima prendendo Abramo e colorandolo, si potrebbe dire, con il segno di Mosè, mentre Abramo viene prima; se il giudaismo vuole tenersi Mosè, deve farlo tenendolo insieme e sotto il segno di Abramo. Si è trattato di una operazione straordinaria perché ha collegato il movimento cristiano, il cristianesimo, alle sue radici ebraiche, cioè ad Abramo, che è una figura universalistica.

C’è un secondo motivo per cui Paolo esclude la legge nel processo di giustificazione, in forza del quale l’uomo occupa la giusta posizione di fronte a Dio e di fronte agli altri uomini, processo che vede l’uomo non come osservante della legge, ma in quanto credente, ed è che la legge è in questo assolutamente insufficiente, addirittura impotente. La legge, dice Paolo, non è capace di dare vita, vita in senso di salvezza. Solo Cristo è datore di vita, lui che nella risurrezione è diventato “spirito creatore di vita” (1 Cor. 15,45). Dunque non solo la legge va eliminata perché fa ombra a Cristo, unico salvatore, ma anche perché non è capace di dare la giustificazione. E non è tutto: in Rom. cap. 7, Paolo discutendo della natura della Torah, anzitutto afferma che essa non è il peccato, ma aggiunge che è strumentalizzata dal peccato. Egli parla qui di una umanità che dall’inizio è tiranneggiata dal peccato; si noti il singolare: Paolo non parla mai dei peccati e non vede nella remissione dei peccati la soluzione al problema dell’uomo. Questo trova una soddisfacente soluzione soltanto nella liberazione dell’uomo da questo signore che schiavizza l’uomo e lo rende impotente a costruire una vita positiva all’insegna del bene e del giusto. Ora se la legge non è equiparabile al peccato, dice Paolo, però il peccato strumentalizza la legge e rende la persona del tutto incapace di giustizia, perché è fonte nella persona del sorgere di pulsioni e desideri all’insegna della cupidigia e dell’egocentrismo. Nell’uomo, secondo Paolo, esiste un elemento positivo: il desiderio di fare il bene e di essere nel giusto, ma è velleità pura: “io vorrei fare il bene, ma è il male che finisco per compiere”. Il desiderio buono resta velleitario perché la persona è in balia di una potenza del male, il peccato: un dinamismo atroce che piega l’io verso qualcosa che non vorrebbe, ma a cui alla fine cede.

In Rom. 7 si scorgono delle tracce di un motivo che pure la tragedia greca conosceva nella figura di Medea (Euripide), che di fronte all’orrenda uccisione dei figli confessa di essere stata trascinata da una forza interna superiore alla sua volontà: “Le passioni sono più forti della decisioni della mia volontà: per i mortali questa è la causa dei più grandi mali” (1077-1080). In ambito latino è noto quanto ha scritto Ovidio: video meliora, proboque, deteriora sequor: “vedo il meglio e lo approvo, ma poi seguo di fatto il peggio” (Metamorfosi, 7,19-21). Si veda anche Epitteto: ho thelei ou poiei kai ho mê thelei poiei (egli non fa ciò che desidera e fa ciò che non desidera) (2,26,4). Per la presenza nell’uomo di questa forza interna spaventosa si capisce, dice Paolo, che la legge è incapace di rettificare la posizione dell’uomo di fronte a Dio e agli altri; anzi la legge addirittura complica enormemente le cose nei confronti del peccato, perché attraverso la proibizione del male stabilita dalla legge, l’uomo fa il male in quanto dominato dal peccato si ribella.

Ora di fronte a questa incapacità della legge e alla sua strumentalizzazione per opera del peccato, si capisce che per Paolo la soluzione sia allora l’esclusione del nomos, della legge mosaica. E questo naturalmente vale anche del nomos greco o della lex latina: non risolvono il problema drammatico dell’uomo e del suo destino di vita o di morte.

Ma in questo modo si capisce anche che gli avversari lo accusassero di essere un anomista, che giustificava ogni agire dell’uomo, lasciato in balia delle sue pulsioni e delle sue cupidigie. Gli obiettavano: tu escludi la Torah che rappresenta un tentativo di Dio di portare l’uomo verso il bene, verso un ethos positivo; non finisci per portare gli uomini dentro il caos delle loro scelte qualunque siano? Paolo risponde che lo comprendevano male. In 1 Cor. 9,21, un testo straordinario dove, con giochi di parole, parla di se stesso in quanto missionario, afferma: quando io sono in un gruppo di ebrei, mi comporto da ebreo, dunque da osservante della Torah, non mangiando, ad es., la carne di porco, per conquistare a Cristo gli ebrei; mentre quando mi trovo con i pagani, mi comporto da pagano, ad es. mangiando tranquillamente la carne di porco. Ed ecco le sue parole esatte che traduco così: “quando entro in rapporto con gli anomoi, i senza-legge, cioè gli incirconcisi, mi comporto come anomos, come uno senza-legge, io che non sono un anomos di Dio, cioè un fuori-legge rispetto alla legge di Dio, perché sono dentro la legge di Cristo (ennomos Christou). Paolo quindi toglie di mezzo il nomos non solo in rapporto al processo di giustificazione, ma anche in campo etico. Egli infatti non dice ai cristiani: “fate questo perché lo dice la legge”. In una parola, il nomos, la legge, è eliminata non solo come fattore salvifico attraverso cui la persona raggiunge la giustizia, ma anche come norma indicativa di ciò che si deve fare.

E “l’essere dentro la legge di Cristo” non si riferisce all’insegnamento di Cristo e neppure al comandamento dell’amore del prossimo: per Paolo il problema non è che ci siano delle leggi più o meno aggiornate, più o meno attuali; il vero problema non è il precisare e l’indicare, proprio della legge, il dover fare, ma l’annunciare “la legge di Cristo”, questa cosiddetta “nuova legge”, questo nuovo nomos, che non è essenzialmente un codice, non è l’insegnamento di Gesù e neppure il suo esempio. Alla Torah, alla vecchia legge, Paolo sostituisce come ‘norma’ una dynamis, un dinamismo, appunto lo Spirito. Non qualcosa di immateriale, come nel dualismo greco, ma una forza, una potenza, un principio creatore: in Rom. 7,24 dirà: “Chi mi potrà liberare da questo mio essere votato alla perdizione eterna?” e risponderà con una dossologia: “Siano rese grazie a Dio e al Signore Gesù Cristo” e, al cap. 8 ai vv.1-2, precisa: “Per quelli che sono in Cristo non c’è nessuna condanna, perché la legge che è lo Spirito che dà la vita, ti ha liberato dalla legge che è il peccato che conduce alla morte”. Paolo cioè invoca questa potenza di Dio, forza creatrice, che è lo Spirito donato ai credenti che crea nel soggetto un dinamismo nuovo, quello della fede che è operante in forza dell’amore (Gal. 5,6). Si noti bene che per Paolo l’agape, l’amore per gli altri non è anzitutto un comandamento, ma il frutto dello Spirito (Gal. 5): è una forza che ci guida sulle vie dell’amore concreto.

Dunque la soluzione per Paolo è in questa norma, del lasciarsi agire, o guidare dallo Spirito, da questo dinamismo che possiamo contrastare, ma al quale siamo sollecitati con forza e perennemente.

Nelle lettere di Paolo qua e là, ma soprattutto nella seconda parte delle lettere ai Galati, ai Romani e ai Tessalonicesi, troviamo non proprio dei comandamenti, ma molte esortazioni per le quali, di solito, non usa il lessico: “vi comando”, ma quello di “vi esorto, vi sollecito, vi prego, ecc.”. Ora queste esortazioni etiche, questa paraclesi o parenesi paolina, come si dice in termine tecnico, non significa far rientrare dalla finestra quello che si è estromesso dalla porta. La sua esortazione non è una “legge” sostitutiva della Torah, ma l’espressione di una paterna pedagogia che Paolo esercita nei confronti delle comunità provenienti dal mondo pagano, il cui livello morale era assolutamente infimo. Per questo non bastava che dicesse: “lasciatevi condurre dallo Spirito”, il quale era certo autosufficiente come forza (dynamis), ma insufficiente a fornire una indicazione pratica nelle situazioni cangianti della vita e della storia delle sue comunità, soprattutto per quanto riguardava i comportamenti da tenere nei rapporti reciproci e nella vita di comunità. Paolo affianca quindi all’imperativo “lasciatevi guidare dallo Spirito, siate docili allo Spirito”, l’indicazione delle strade che concretizzano tale principio di docilità. Si trattava di evitare – e Paolo era abbastanza realista per capire questo – che uno scambiasse il cammino indicato dallo Spirito con strade assolutamente opposte.

Paolo non era un moralista; la sua è una visione mistica, proteso all’essere in Cristo, all’essere cioè dentro quello che io chiamo il campo magnetico delle forze nuove dello Spirito, forze agapiche di amore, accoglienza, perdono, ecc. Mentre per l’ebraismo la Torah, l’osservanza della legge, era la condizione per stare dentro il patto, per Paolo si sta dentro questo dinamismo, questo campo magnetico delle forze nuove dello Spirito che è il Cristo risorto, lasciandosi guidare appunto dal nomos tou pneumatos (Rom. 8,2): lo Spirito è la legge, non un ordinamento bensì una forza traente e illuminante, a cui certo si può anche dire di no, ma il credente è impegnato a dire di sì. É questa la responsabilità etica che egli intende far nascere nelle sue comunità. Questo Spirito è il nuovo nomos, nuovo in senso qualitativo rispetto alla Torah e al nomos greco-romano.

Vasti, Seminario del 1 febbraio 2004