VASTI

Che cos’è umano ?

Scuola di ricerca e critica delle antropologie

Seminario del 4 aprile 2004

Ancora sul “nomos”.

Confronto Barbaglio, Ferrajoli, La Valle

Raniero La Valle: Riprendiamo la discussione sul “nomos” e su Paolo di Tarso; in proposito vi ho inviato una lettera, non tornerò perciò sui temi trattati, ma vorrei riprendere un po’ il filo principale del discorso che fin qui abbiamo condotto.

Per molto tempo, da quando siamo impegnati in queste cose, abbiamo parlato del diritto, ci siamo interrogati sulle origini del diritto e sul suo svolgimento; ad un certo punto abbiamo tentato di incrociare il discorso sul diritto e sul nomos con il discorso di Paolo, perché anch’esso è un discorso sul nomos, anche se il nomos a cui egli arriva non è una legge, ma una persona. Ora l’incrocio tra il primo filone di discorso, che è laico, politico, culturale, e il discorso di Paolo ha portato, almeno per me, ad una sorpresa, quella di condurre come ad una ricomposizione, ad una unità: la stessa storia umana, in qualche modo, viene ricompresa dentro una prospettiva unitaria.

Anche la questione che è stata posta, se cioè il pensiero di Paolo riguardi solo i credenti e non anche i non credenti, proprio dall’incrocio tra la analisi sul nomos in generale e l’approfondimento del discorso di Paolo, credo che possa essere superata, nel momento in cui la storia si ricongiunge e vediamo che credenti e non credenti stanno dentro questa unica storia. Ed è questa una esperienza quotidiana; noi possiamo morire a causa dei credenti: se ci sono dei kamikaze che per la loro fede si fanno esplodere davanti a noi, a causa dei credenti noi moriamo. Ma perché non pensare che noi possiamo anche vivere a causa dei credenti, nel senso che un’operazione come quella di Paolo, portata avanti in nome di una fede, a partire da una fede, riguardi non solo i credenti, ma anche i non credenti in quanto riguarda la storia del mondo. Allo stesso modo come dal credente può venire la morte, dal credente può venire la vita; una volta messi in atto, determinati processi, questi poi riguardano tutti al di là del modo in cui ciascuno rispetto a quei processi si posiziona in quanto alla fede.

Ciò che a me sembra decisivo nella rilettura di Paolo è il fatto che egli rompe lo schema contrattualistico del rapporto tra Dio e l’uomo; quando critica il patto, quando mette in discussione la legge, lo fa in nome della gratuità di Dio, massimamente rappresentata dal Cristo. Paolo rompe il modo di concepire il rapporto dell’umanità con Dio all’interno di un rapporto di tipo contrattualistico, pattizio. Di questo si discute nella lettera che vi ho scritto, dove si affronta anche il problema della scarsità, e altre cose; ma questo, a mio parere, è il punto fondamentale, quello che a me interessa maggiormente: se è vero che si rompe questo tipo di rapporto fondato su un modello di scambio, di dare e avere, e si propone un modello di gratuità, di dono, di grazia, se questo è il modello del rapporto con Dio, probabilmente tutto ciò ha a che fare anche con i modelli del rapporto tra gli uomini.

Su questa linea di ragionamento, ciò che mi ha impressionato, è che tutta questa ideologia, ben presente nell’Antico Testamento, del rapporto con Dio come rapporto pattizio, che Paolo ha dovuto cercare di superare e di convertire attraverso un’altra idea altrettanto forte come quella della grazia, in realtà anche prima di Paolo, non aveva altro senso se non quello di una metafora. In una relazione molto interessante tenuta nel 2001 in uno dei convegni di Prodi a Camaldoli, su “Il diritto nella Bibbia” il gesuita Jean Louis Ska, docente presso il Pontificio Istituto Biblico di Roma, dice una cosa che mi ha particolarmente colpito e cioè che questa rappresentazione dell’Alleanza, come modalità del rapporto con Dio, è nata e si è sviluppata in Israele, quando con la riforma di Giosia si mette mano al Deuteronomio, cioè si norma il rapporto del popolo di Israele con Dio; ebbene il modello più vicino che questo popolo aveva per esprimere il senso di quel rapporto, era quello dell’Alleanza, che regolava i rapporti con i popoli vicini (rapporti appunto o di alleanza o di inimicizia). Per dire che il rapporto che il popolo aveva con Dio era di forte unità e reciprocità, si prende il modello dell’Alleanza, che altro non è che una metafora, così come è una metafora quella del Regno. Questa idea del Patto tuttavia stava già stretta ai Profeti, così che Geremia annuncia un’altra “Alleanza”, che di fatto non è più un’alleanza, perché è una legge non pattizia che è scritta nei cuori; non è quindi una seconda alleanza, ma è un’altra cosa.

Mi sembra, invece, che la teologizzazione sempre più spinta che poi è stata fatta di questa metafora dell’alleanza, fino a dettare il modo in cui noi stessi chiamiamo la novità cristiana, che diventa appunto la “nuova alleanza”, sia fuorviante perché assolutizza il concetto di alleanza per definire il rapporto dell’uomo con Dio, che aveva senso ed andava benissimo se preso come metafora, con tutte le cautele del caso, ma non esprime la realtà della grazia, che non dispone di una metafora politica altrettanto efficace.

Ed allora, quando consideriamo Paolo nella sua funzione di critica del concetto del “do ut des”, dello scambio, della contrattualità, del patto, rileviamo che non solo afferma “è venuto Gesù che ha abolito il vecchio patto e ne ha fatto uno nuovo”, ma dimostra che anche prima il patto interpretato in quel modo non dava ragione della natura di Dio perché anche prima Dio era gratuito; egli non diventa gratuito da oneroso che era: è che attraverso questa novità che viene annunciata nel vangelo, in Cristo si rivela una maggiore e più avanzata percezione della natura del rapporto con Dio, un altro modo di concepire Dio e il rapporto con Dio. In qualche modo Paolo retroagisce, rivelando una verità che era già, ma che non era stata colta e che si disvela in Cristo.

Le conseguenze sono di notevole portata; prendere alla lettera il simbolo del patto sarebbe come se noi prendessimo talmente sul serio la metafora del Regno, da pensare che l’unico modo in cui si debba attuare l’annunzio del Nuovo Testamento sia quello di realizzare uno Stato bello, perfetto, ecc.; la stessa cosa avviene per la metafora dell’Alleanza. Certo il discorso dell’Alleanza resta importante perché mette l’uomo su una specie di piedistallo, in una qualche parità con Dio, in un rapporto dove non c’è il tutto e il nulla, ma ci sono due soggetti in qualche modo con pari dignità: l’Alleanza è suggestiva, bella, perché ci dice dell’uomo che fa un patto con Dio, il che non è cosa da poco, nel senso che se si fa un patto con un camorrista si è camorrista, se si fa un patto con Dio in certo modo si è divino. Che però il valore di questa metafora venga tradotto in un vincolo discriminante, per cui si sta nel patto ma se non ci si circoncide non si è salvati, se non si fanno determinati sacrifici non si partecipa della grazia di Dio, porta conseguenze molto gravi, compresa l’ultima conseguenza che riguarda la terra: se questa terra fa parte del patto, succede che io mi circoncido, osservo il sabato, ma Dio si è obbligato a darmi questa terra, e il ritorno a Sion, anche nella forma del dominio territoriale e politico, diventa un assoluto religioso. Io sto nel patto e devo rispondere ad una serie di clausole, rispetto determinati adempimenti, ma Tu devi darmi le contropartite promesse, il che diventa una tragedia perché all’interno del patto ci sono tutte le cose che vi si sono inserite lungo i secoli, ed una di queste è appunto la terra, promessa non a Mosè, ma addirittura ad Abramo: “La tua terra sarà dal Nilo, dal grande fiume d’Egitto, fino all’Eufrate”.

Proprio nel momento in cui, secondo Paolo, non siamo ancora nel “patto”, ma nella gratuità di Dio, arriva la bella notizia che il popolo che esce da Abramo avrà il possesso di tutta quella terra. Se queste sono le clausole del patto, Paolo cerca di mettere il rapporto su una base diversa, che è appunto quella della gratuità e della grazia.

Paolo propone un superamento del patto che si basa non sulla reciprocità, sulla ragione di scambio, ma sulla iniziativa gratuita di Dio, sulla grazia che non è commisurata alle opere dell’uomo; le opere vanno fatte, devono essere fatte opere di giustizia, di carità verso i fratelli, verso i propri simili, ma non sono limiti e condizioni all’operare di Dio.

Questo a me sembrava molto interessante cogliere nel pensiero di Paolo, perché se funziona, con tutta probabilità funziona anche riguardo al modo in cui noi oggi pensiamo questo rapporto: anche noi riguardo alle metafore ed alle categorie che usiamo, alle tradizioni che oggi utilizziamo per definire la nostra dimensione religiosa, possiamo pensare non che un giorno sarà tutto cambiato da un nuovo messia, da qualche nuovo annunciatore, ma saremo noi stessi, essendo già venuto lo Spirito, a capire cose che oggi ancora non capiamo.

Resta quindi aperta tutta una dimensione dinamica.

Luigi Ferrajoli: A me pare sia molto chiaro questo passaggio dal Vecchio Testamento a san Paolo, nel senso che, come dice Raniero (La Valle) – io non ci avevo mai pensato anche perché non conosco molto bene queste cose -, san Paolo esclude il carattere utilitaristico del rapporto con Dio e fonda, insieme alla gratuità di un universalismo così concepito, anche il carattere non utilitaristico forse della morale per cui si deve fare il bene non per andare in Paradiso o per adempiere ad un patto, ma per il valore in sé che hanno azioni appunto moralmente apprezzabili.

Continuo a pensare, però, e questo dipende dal mio laicismo, che la posizione di san Paolo, ed in ogni caso la posizione che collega la grazia alla fede, continua a fondare la grazia, e quindi continua ad ancorare l’universalismo che viene in questo modo certamente allargato rispetto all’angustia del “popolo eletto”, da un lato ad una identità, che è quella di credente, e dall’altro ad una verità, e cioè all’accettazione, potremmo dire, come vera, di qualsiasi cosa sia oggetto della fede. Anche questo è un problema per un laico: il non credere, collegato al carattere totalmente problematico e misterioso di questo oggetto della credenza per cui non sappiamo, in ogni caso, esattamente in cosa credere. E c’è un doppio condizionamento: da un lato l’identità di credente che naturalmente dipende da un atto di volontà, perché pur sempre, anche se la grazia è aperta a tutti, suppone comunque un’accettazione, che non è certamente naturale in quanto implica una scelta, e dall’altro la verità, perché tale scelta è legata ad un fatto intellettuale, teoretico, conoscitivo, in altre parole non è una scelta pratica che deriva dal fare; e qui sta tutto il paradosso della fede che è legata al credere, al dovere di credere ad una determinata verità. E’questa una cosa che un laico non riesce ad accettare.

La tradizione laica nella quale mi riconosco distingue viceversa tra valori e verità: i valori non sono né veri né falsi, e sono ovviamente molto più importanti di ciò che è vero e di ciò che è falso, ma sono accettati, difesi e informano la propria vita, non in quanto veri ma in quanto, per l’appunto, giusti. C’è una distinzione quindi tra asserzioni e prescrizioni e, ancora più forte, tra diritto e morale. A me pare che l’universalismo dei diritti, sotto questo aspetto, sia gratuito in un senso molto diverso rispetto all’universalismo di Paolo – su questo potremmo discutere e confrontarci -, in quanto consiste nel convenire l’uguaglianza nei diritti, qualunque cosa vogliamo o pensiamo. E’ una convenzione che è indipendente sia dalla volontà di ciascuno – vale quindi anche per i fascisti, per i totalitari, per persone di diverse culture, ecc. -, sia da ciò che pensiamo, in quanto consiste nella valorizzazione di tutte le differenze, per l’appunto, di identità, di pensiero e di volontà (vedi l’art. 3 della Costituzione “Sono tutti uguali indipendentemente dalle differenze di sesso, di razza, di lingua, di opinioni religiose o politiche”). Questa valorizzazione di tutte le differenze fa, quindi, di ogni persona un individuo differente da tutti gli altri, ma anche di ciascun individuo una persona uguale a tutte le altre.

Questo universalismo presuppone effettivamente un patto; è vero, c’è un elemento di artificio, di convenzione in un senso doppio: convenzione nel senso che non si tratta dell’accettazione come vera o come falsa dell’uguaglianza, non è una verità il fatto che siamo uguali, ma un atto di volontà: conveniamo di essere uguali, si conviene che si è uguali; ma anche convenzione nel senso di riconoscimento dell’altro come uguale. Non è un patto con Dio, è un patto, e può essere sviante in proposito l’idea del contrattualismo, come base del riconoscimento degli altri come uguali; è un patto magari metaforico e qui rileviamo un’aporia, perché vale indipendentemente dal consenso; e qui sta il suo carattere metaforico.

Nel leggere e nel pensare, nella mia capacità di comprensione, guardando a questo nesso tra la gratuità e la fede, la grazia e la fede, e quindi al credere, mi venivano in mente cose molto più piccole, in un certo senso, ma che fanno comunque parte dell’attuale dibattito e contro cui da anni viceversa sono schierato, e cioè le idee che connettono il valore di una Costituzione, la legittimità di una Costituzione, della dichiarazione dei diritti all’esistenza di un popolo, in qualche modo ad una condivisione, di nuovo, da un lato ad una identità di demos e dall’altro ad una accettazione di questi valori (ad es. tutta la polemica contro l’imperialismo dei diritti, per cui i diritti valgono soltanto per chi ci crede, e quindi una Costituzione suppone un’accettazione). Credo che in questo ci sia una grande confusione anche molto pericolosa, nel senso che questa accettazione, un minimo di accettazione è una condizione di effettività, ma non certo di legittimità, e che le Costituzioni (non so se si potrebbe parafrasare dicendo la stessa cosa della grazia) valgono soprattutto, servono soprattutto tra opposti, tra nemici potenziali, tra differenti; servono per l’appunto a consentire la convivenza pacifica, sono patti di non aggressione e anche di mutuo soccorso, che suppongono la differenza di culture, la potenziale ostilità, servono per l’appunto a realizzare la pace: è il tema caro a Raniero del nesso tra “pace e diritti”. Servono, quindi, soprattutto ai non credenti, nel senso che servono a fondare non soltanto la tolleranza, ma anche la valorizzazione dei non credenti. La funzione delle Costituzioni non sta nell’esprimere il senso comune (non servirebbero a nulla se potessimo farne a meno) ma a garantire, e quindi a realizzare quel tanto di riconoscimento degli altri come uguali, che fonda per l’appunto la pace.

Io non so se si può dire che la grazia – mi pare sia una contraddizione in termini – è tanto più necessaria in quanto ha a che fare con i non credenti – e dico questo per esprimere un paradosso – per cui se da un lato trovo molto importante l’idea di connettere la religione, ed in particolare la sua versione più avanzata, quella di Paolo, con l’universalismo, dall’altro mi pare che resti ancora qualche aporia.

Giuseppe Barbaglio: Il patto e la grazia: va detto che troviamo la grazia anche nella tradizione ebraica; certamente Paolo non è, come dire, “l’inventore” della grazia di Dio, ma colui che ha ridefinito la grazia, nel senso che la ha qualificata.

Nella tradizione ebraica lo schema fondamentale era quello del nomismo pattuale, e cioè un patto qualificato dal nomos, e il patto stabiliva un rapporto con Dio, e Dio era all’inizio del rapporto e quindi era la grazia, il popolo cioè viene introdotto nel rapporto per grazia (“Non perché eravate i più grandi ed i più potenti …ma perché Dio vi ha scelti”).

Una volta entrati nel patto, c’è il nomos, la legge, la clausola del patto stesso: “Se volete restare nella situazione di grazia che Dio ha creato per voi, dovete confrontarvi col nomos e rispettarlo, se trasgredite il nomos, in questo stesso trovate tutte le vie per il recupero, cioè il sacrificio, il perdono, la conversione, ecc., e l’esito finale, la salvezza ultima è ancora grazia”. Non per essere stati nel patto si merita la salvezza, che resta ancora iniziativa di Dio; all’inizio e alla fine c’è la grazia.

Paolo attacca duramente questo nomismo pattuale, attacca Mosè ed il patto sinaitico, non perché non ci fosse la grazia, ma perché conteneva un elemento separante, escludente nei confronti di coloro che non sono stati introdotti nel patto. Paolo attacca, e duramente, quello che considera un privilegio da una parte ed un’esclusione etnica sbagliata dall’altra e li ha equiparati. La grazia che lui ridefinisce è la grazia in Cristo, in cui tutti gli uomini sono parificati.

Da questo punto di vista ritorno sul problema dell’universalismo. Anche il giudaismo era universalistico – di universalismi ce ne sono tanti – nel senso che tutti potevano in qualche modo arrivare alla salvezza, purché, e qui sta il problema, si circoncidessero, accettassero cioè il nomos ebraico; era quindi un universalismo, però condizionato, nel senso che un “Gentile”, uno delle genti, per poter entrare nel patto, doveva rinunciare alla sua identità, rinunciare cioè ad essere “Gentile”, perché tale era qualificato proprio in opposizione all’essere circonciso. Paolo attacca questo sistema proprio perché si pone il problema dei Gentili e della loro salvezza come tali.

Va chiarito ancora che Paolo non combatte il giudaismo; la polemica, che nasce soprattutto in Galazia, non è contro i giudei ma contro i giudeo-cristiani. In Galazia Paolo aveva annunciato il vangelo della libertà, che si traduceva nella prassi missionaria di accogliere i Gentili “come Gentili”, e quindi equipara gli incirconcisi ai circoncisi, mentre il fronte più conservatore dei giudeo-cristiani sosteneva che per essere ammessi i Gentili dovevano essere circoncisi, perché Abramo era stato circonciso e così Mosè, Gesù, ecc.

In questo sta il punto vero, cioè se, in fondo, il cristianesimo era un fenomeno abbastanza nuovo e innovativo, soprattutto in relazione all’universalismo, o soltanto un adattamento del nomismo pattuale. Si capisce quindi come Paolo bypassi, a ritroso, Mosè, il patto ed il nomos per risalire ad Abramo ed alla promessa, alla promessa incondizionata, nella rappresentazione del rapporto con Dio, come rappresentazione pattizia: “in te tutte le genti saranno benedette”. Ripeto, Paolo elimina il patto non perché nella “logica del patto” non ci sia la grazia – sa bene che anche lì la grazia di Dio c’è -, ma perché nel patto è presente una condizionatezza che lui non accetta; la sua forte e vera preoccupazione è di superarla e di poter affermare che “Giudei e Gentili, di fronte a Cristo sono parificati”, non esiste alcun privilegio per i primi, non esiste handicap per gli altri.

Un primo universalismo, quindi, è questo: tutti, cioè, sono messi al palo di partenza, chi era dietro, chi era avanti, chi aveva un vantaggio, chi era penalizzato, tutti sono messi al palo, come in un circuito, come i cavalli al Palio di Siena. Questo significa anche che quando tutti sono parificati, annullando il privilegio degli uni e cancellando l’handicap degli altri, tutti sono liberati dal loro passato o di privilegio o di handicap – prima liberazione.

Un secondo aspetto di questo universalismo è che a tutti, messi al palo e liberati dal loro passato, viene offerta la salvezza “sul piede di parità”. Come dicevo, anche l’ebraismo prevedeva la salvezza per tutti, ma condizionata, subordinata all’entrata nel patto, mentre Paolo coglie qui il punto vero: la salvezza offerta a tutti sul piede di parità.

Ritengo che questi due aspetti siano senza dubbio da considerare aspetti di universalismo, in quanto parificazione, equiparazione e proposta a tutti della salvezza su piede di parità.

Certo che poi si pone il problema dell’accettazione, accettazione della fede e rifiuto della fede (o accettazione della non fede). Nella convivenza c’è sempre un elemento di accettazione; e quando si arriva al punto accettazione si, accettazione no, avviene, come dire, la separazione, che di fatto è un’autoseparazione; certo, alla fine c’è comunque un elemento di particolarismo.

Su questo va detto che Paolo non è stato chiaro fino in fondo: “Si salveranno solo coloro che hanno fede, quelli che credono” – certo, ma questo non è mai da lui affermato in termini molto espliciti -. In altre parole Paolo sostiene che Dio non salva tutti incondizionatamente, ma che a tutti viene offerta la grazia senza condizione e si salvano coloro che la accettano, e quindi indubbiamente introduce un elemento di particolarismo; vanno però tenuti presenti i due elementi di universalismo fondamentali: l’equiparazione e la proposta a tutti su piede di parità.

Il punto vero, forte è questo elemento di incondizionatezza che Paolo introduce, almeno fino al punto dell’accettazione; la proposta è incondizionata, ed avrei qualche difficoltà a parlare poi di elemento utilitaristico. Il problema è che la salvezza, per Paolo, non passa sopra le persone, non è un automatismo nel senso che Dio salverà tutti, proprio perché si tratta di salvezza di persone.

L’universalismo di Paolo, a mio avviso ha tre aspetti; due li ho già detti: l’equiparazione e la proposta a tutti su piede di parità. Il terzo aspetto è l’accettazione, elemento che riguarda la persona, mentre l’accettazione del nomos, e quindi della circoncisione riguardava non solo la persona, ma anche l’eredità culturale, la tradizione – elemento particolaristico -; in altre parole, ciò che si richiede, nella visione paolina, è che le persone reagiscano da persone. E’ evidente che tutti reagiscono da persone, anche il credente reagisce da persona, che risponda si o risponda no è la sua persona che lo dice. Alla fine c’è l’elemento particolaristico perché questa salvezza che riguarda persone in quanto persone, è una salvezza che ha un prezzo, per dirla con Bonhoeffer, in termini brutali, “Sulla grazia non si fanno sconti, la grazia non si svende sul mercato”.

Ho già detto i tre elementi dell’universalismo paolino: l’equiparazione e il superamento del privilegio o dell’handicap del passato, l’offerta sul piede di parità a tutti al di là delle differenze, l’accettazione come risposta a questa offerta che è incondizionata.

Ancora un quarto aspetto di questo universalismo, che potremmo dire una qualificazione del terzo, dell’accettazione cioè nel senso che la risposta è richiesta alle persone in quanto persone: non si tratta della risposta di uno che è ebreo e deve rinunciare ad essere ebreo, così come di uno che è gentile e deve rinunciare ad essere tale (Paolo non ha mai chiesto questo, né ha mai detto agli ebrei di non circoncidersi più, ma ha detto loro “voi non forzerete i gentili a circoncidersi, e non c’è problema se voi vorrete continuare a circoncidervi”; circoncisione o incirconcisione sono ảdiáfora, sono cose indifferenti).

L’elemento particolaristico, se così vogliamo dire, è che alla fine “salvati saranno i credenti, i credenti in Cristo”. Paolo, peraltro, non affronta mai il problema di cosa sarà degli altri, cioè dei non credenti; quando parla del “Giudizio”, che sarebbe poi la condanna – e alcuni sostengono che sarebbe un argomento importante, mentre io credo sia un tema secondario – non vi si è soffermato molto, e si riferisce soprattutto ai credenti quando afferma “attenti voi credenti, perché non siete degli ‘arrivati’ e la vostra vita rappresenta sempre una sfida, ecc.”.

Certo ritroviamo un elemento particolaristico, che attiene proprio al problema del rapporto tra Dio e l’uomo, l’uomo inteso come persona che gioca, in prima persona appunto, il proprio destino, un destino “aperto” per grazia di Dio, non cioè un destino fatto e definito, ma aperto ad un destino positivo. Da questo punto di vista è interessante rilevare che anche Giovanni non parla mai di Dio o di Cristo che condanneranno, ma mette in bocca a Gesù queste parole: “La mia parola vi condannerà. Chi ama la luce sarà nella luce e chi ama le tenebre sarà nelle tenebre”, affermando così un autogiudizio, un’autocondanna.

Sull’universalismo di Paolo vorrei dire un’ultima cosa: intanto la concezione di un nomos identificato con lo Spirito, in una visione quindi mistica, il nomos mistico, che va al di là degli steccati, mentre la fede, e soprattutto la confessione della fede (Paolo non ha mai distinto tra fede e confessione della fede, ma questi due aspetti li tiene sempre uniti; nella lettera ai Romani dice, infatti,: “se tu confesserai con la bocca la fede e se tu crederai nel cuore…”) è certamente un elemento particolaristico, su cui non c’è dubbio.

Ma a parte il nomos mistico, è interessante vedere come nei confronti del diritto si ponga la grazia che sta alla fonte della fede, e la fede stessa, la prospettiva di fede che per i credenti ha certamente a che fare con qualcosa di decisivo; a me sembra che, per certi versi, la fede non si occupa dei nomoi, delle leggi, così che, per es., in Romani 13 Paolo dice: “pagate le tasse…” – come cittadino romano anzi, per la sua attività missionaria aveva una convenienza a muoversi nell’ordine garantito dai romani -. C’è però un caso in cui il suo nomos contrasta col nomos politico, quando cioè il nomos politico assume valenza salvifica, religiosa: è il caso in cui ci si trova di fronte agli imperatori che erano i signori, il kyrios, signori assoluti cioè, nei cui confronti l’uomo si trovava in uno stato di sottomissione totale. Paolo contesta questa situazione perché dice: “noi abbiamo un altro signore, un altro kyrios, che è Gesù Cristo; a lui va tutta la nostra adesione, adesione di mente e di cuore”. L’altro kyrios, il signore romano, ci può imporre, per così dire, le convenzioni, le leggi – va ricordato che gli ebrei, ad es., avevano leggi a loro favorevoli che consentivano di evitare il servizio militare, di esercitare una certa loro autonomia, ecc., e Paolo, in qualche modo, dà per scontati tutti questi regolamenti minuziosi -; ciò che non dà per scontato è proprio, come dire, la ricaduta politica della adesione di fede, l’assolutismo della signoria di Cristo: cioè la signoria di Cristo contesta , nella sua assolutezza, la signoria del potere romano.

Ecco perché nascono i martiri, coloro cioè che si rifiutano di bruciare l’incenso, non a Giove, ma al potere romano. Plinio il Giovane, governatore romano in Bitinia, scrive all’imperatore Traiano, con cui aveva un carteggio, chiedendo come debba comportarsi con quei cristiani che gli vengono indicati come resistenti; Traiano risponde di non considerare le lettere anonime, e tra coloro che vengono portati in tribunale con accuse precise, assolvere coloro che bruciano l’incenso per l’imperatore. E’ a quel punto che avviene la frizione; in altri termini il riconoscimento della signoria di Cristo impedisce l’adorazione del kyrios umano.

La stessa cosa è avvenuta per Gesù Cristo: ci troviamo ora di fronte al film sulla “passione” su cui si discute tanto, anche se pochi lo hanno visto. Sappiamo certamente, dal punto di vista storico, che Gesù è stato condannato dal Prefetto romano Ponzio Pilato, il solo che avesse il potere giudiziario delle cause capitali, per un motivo politico, come dice Giovanni “Gesù ‘Nazoraios’ Re dei Giudei”, cioè preteso “re dei giudei”. Alcuni dicono che è stato condannato per quello che non era, perché non risulta che politicamente svolgesse molta attività. Dal punto di vista storico appare oggi pressoché certo che ci sia stato un unico processo, con l’autorità romana come riferito da Giovanni, mentre il processo giudaico è stato costruito da Marco per dimostrare che Gesù confessava di essere figlio di Dio – per tutti i cristiani quindi un esempio di fedeltà – e per coinvolgere i giudei – il famoso antigiudaismo è tutto nei vangeli; Gibson ha risposto alle accuse dichiarando di aver rispettato i vangeli; significativa la frase, riportata da Matteo, attribuita al popolo che grida: “il suo (di Gesù) sangue ricada su di noi e nostri figli” -. Nella storia non si aggiunge niente altro sull’antigiudaismo, anche se, ovviamente, occorre poi spiegare perché Matteo abbia dato spazio a questa costruzione ideologica che non riguarda un fatto storico.

Ma torniamo al punto che mi interessava: Gesù è stato condannato per un motivo prettamente politico e dalla autorità politica romana. Bultman dice che praticamente il senso della morte di Gesù è nullo per noi, perché è stato condannato per quello che non era, dal momento che non si è mai sognato di fare il re. Altri, invece, dicono che sì, è stato condannato a morte per una causa politica e dai romani, però siccome il gruppetto di potere giudaico (Caifa e i suoi, non il Sinedrio o l’Assemblea giudicante), che in qualche modo ha funzionato da pubblico ministero nel processo, aveva un altro motivo nascosto che non potevano esplicitare a Pilato, un motivo religioso, ci si è trovati di fronte ad un motivo politico inesistente che copriva un motivo religioso vero.

Gesù, quindi, è stato condannato, a mio parere, per quello che era, per quello che è stato, non perché abbia avuto un’attività politica diretta, ma nel senso che quando lui annunciava la regalità di Dio, che cioè Dio comincia a regnare sulla terra – e qui cogliamo il centro vero dell’annuncio di Gesù -, i re della storia cominciano, in qualche modo, ad essere messi in discussione. Siccome poi Gesù diceva che la regalità di Dio comincia già adesso a realizzarsi nella storia (era chiaramente una metafora – quando noi parliamo di Dio non possiamo esprimerci che per metafore – e nel nostro caso si tratta di una metafora di origine culturale monarchica; il problema sono poi i significati) attraverso i suoi gesti di liberazione (lui era un taumaturgo ed esorcista) era certamente implicato. Se aggiungiamo poi che sicuramente aveva un certo seguito in tra i Galilei di Gerusalemme durante la festa della Pasqua ebraica, Gesù rappresentava un pericolo reale, non solo per l’ortodossia giudaica (che ricordava l’atto simbolico della cacciata dei mercanti dal Tempio di Gerusalemme) ma anche per i romani. In altre parole Gesù è stato condannato per un motivo politico che, per così dire, è reale per lui non direttamente ma indirettamente, nel senso cioè che nel suo annuncio “Dio comincia a regnare sulla terra” c’era una chiara ricaduta politica. Anche l’annuncio di Paolo, ma anche di tutti i cristiani, “Gesù Cristo è l’unico Kyrios, l’unico Signore” implicava una ricaduta politica e cioè la contestazione della assolutezza della signoria del potere, cui si riconosce una signoria limitata sul piano politico e sociale, ma si nega il carattere assoluto quando pretenda di decidere il destino profondo di vita e di morte delle persone.

Raniero La Valle: Prima di proseguire vorrei porre una domanda a Giuseppe Barbaglio. Lui dice che i due elementi dell’universalismo di Paolo consistono nel fatto che equipara tutti, mette tutti al palo e che a tutti è offerta la salvezza, e che tutto questo Paolo lo fa non perché è un riformatore sociale, per cui prima vi era una discriminazione e poi viene il grande costituzionalista e dice “ora facciamo il patto e tutti gli uomini sono uguali”, ma lo fa appellandosi ad una dottrina, ad una interpretazione, riferendosi ad una novità che è intervenuta attraverso l’evento di Cristo, cioè attraverso una nuova rivelazione di Dio. Allora da cosa dipendeva, all’origine, questa mancanza di equiparazione, questo fatto che non a tutti era offerta la salvezza? Dipendeva da un diverso fare di Dio oppure da un diverso modo in cui era percepito il fare di Dio?

Giuseppe Barbaglio: Il discorso teologico non è mai un discorso diretto su Dio, ma è sempre un discorso sull’immagine che noi ci facciamo di Dio; il problema poi sarà quello della conformazione all’immagine a Dio. Il problema nostro non è mai dire chi è o chi non è Dio, ma quali immagini sono state costruite, e sono tante, di Dio e verificarne l’adeguatezza alla realtà che viviamo. Da questo punto di vista ritengo eccezionale l’opera di Pirandello “Uno, nessuno e centomila” dove si vede che il rapporto di Moscarda con sua moglie passa attraverso le immagini; così, una mattina la moglie gli dice: “guarda che hai il naso storto” e lui risponde “ma come è possibile se non ho mai avuto il naso storto” e si guarda allo specchio e non si vede il naso storto, ma pensa “eppure lei mi vede col naso storto”; ancora lei lo chiama “Gengé”, e così via, ed allora lui diventa molto scettico, perché ritiene che non si possono avere rapporti genuini quando tutto sia mediato da immagini falsificate o comunque cosi innumerevoli, “uno, nessuno e centomila”, in cui ci si perde.

Il problema teologico non sta nel parlare direttamente di Dio, ma nell’approfondire queste immagini umane, nel nostro caso della Bibbia, di Gesù, ecc., che possono essere anche contrastanti.

Così quando Bush dice “Dio lo vuole”, ed anche il Papa dice “Dio lo vuole”, non possiamo che legare queste affermazioni all’immagine che questi si sono fatti di Dio, perché se noi non passiamo di li troviamo nella Bibbia un insieme di contraddizioni che possono sconcertarci, se dimentichiamo che appunto non riguardano Dio ma le immagini che gli uomini si sono fatte di Lui.

E così, per un credente, “credere a Gesù”, dal momento che credere è un atto di fiducia, che ha poco di razionale, vuol dire credere che le immagini che Gesù ha vissuto ed ha manifestato di Dio sono immagini sufficientemente veritiere, fedeli. Le immagini di Gesù non sono contraddittorie se siamo capaci di parlare di tutte queste immagini e di cogliere nell’insieme delle immagini, anche contraddittorie, che la Bibbia ci propone, il nucleo coerente della sua figura e del suo annuncio. Dobbiamo anche tener presente che, a parte gli elementi sociali e culturali, due sono i fattori che intervengono nella produzione di queste immagini:

  • primo, la creatività del soggetto religioso, come ad es. i profeti, che rappresentano l’elemento creativo dentro la Bibbia, sono coloro che rendono interessante la storia di Israele. Occorre quindi saper cogliere e individuare questa soggettività creativa che in Gesù si è sicuramente manifestata (anche se poi qualcuno lo può ritenere “pazzo”); così non si può negare che Paolo sia stato un soggetto altamente creativo, anche se i giudizi possono essere discordanti. Si pone allora il problema ermeneutico, interpretativo: se cioè, in mezzo a questo mondo di immagini, anche diverse e contrastanti, riusciamo a trovare un filo profetico, un filo rosso. Sotto questo aspetto, anche Gesù, come tutte le altre persone creative, ha dovuto pagare un prezzo, per così dire al condizionamento culturale, ma una cosa è il centro delle immagini di Gesù, altra cosa è la periferia; se punto al centro trovo un’immagine abbastanza coerente.

Se io do fiducia a questo Gesù, ritengo che questa immagine centrale, globale sua è sufficientemente adeguata alla realtà misteriosa di Dio, che nessuno ha mai visto, con cui posso, attraverso le immagini, intrattenere un rapporto sostanzialmente corretto.

Molti anni fa mi trovavo in Medio Oriente, a Beirut, ed un musulmano, dopo aver discusso un po’ di religioni mentre eravamo a tavola, si alza e va alla finestra e dice: “Vedo il sole”, si sposta verso un’altra finestra e dice”Vedo lo stesso sole”, va ad una terza finestra e dice “Vedo ancora lo stesso sole. Queste sono le religioni, le finestre: le differenze delle religioni sono le diverse finestre”. Sono state parole che mi hanno sconvolto per tutta la vita e mi hanno fatto riflettere sulla soggettività nostra, nel senso che attraverso finestre diverse vedo lo stesso Dio, e magari ce n’è una quarta dalla quale non si vede il sole. Con questo voglio dire che l’errore di tutti i fondamentalisti è di credere, di pensare e sostenere che la loro immagine di Dio sia uguale a Dio, da cui derivano poi che, essendo il Dio unico, siccome io lo possiedo, solo io possiedo la salvezza, con le conseguenze pratiche che conosciamo.

– secondo: è importante avere coscienza della relatività, della soggettività e della storicità dei testimoni, dei profeti: anche il fenomeno religioso, anche la fede soggiace alla relatività, alla soggettività ed alla storicità, per cui il problema è appunto vedere come esistano molte immagini di Dio, e credere in Gesù vuol dire affidarsi a questa esperienza prototipica di Gesù ed in qualche modo far propria, se la si sente, se ci si crede, se la si vuole, questa immagine di Dio che Gesù ci trasmette.

Raniero La Valle: D’accordo, ma noi non abbiamo qui posto il problema della fede, il problema del credere o del non credere, che attiene alla dimensione della soggettività e che non è l’oggetto della nostra riflessione.

Mi pare, invece, che il punto centrale della questione sia se l’evento religioso e culturale proposto da Paolo, in connessione con l’annuncio di Gesù Cristo, rappresenti una tappa significativa per la storia umana, rappresenti l’inizio di una grande corrente della storia umana. Quando Paolo trova che gli uomini non sono eguali, non sono equiparati, non godono della stessa offerta di salvezza, ci sono quelli che si salvano e quelli che non si salvano per una questione originaria che non dipende da ciò che fanno o non fanno, e di questo si preoccupa e su questo mette in gioco la sua vita, e si pone il problema da cosa dipenda questa divisione, questa discriminazione, arriva alla convinzione che tale divisione e discriminazione sia teologicamente fondata. Questo, mi pare il punto significativo di Paolo, che non dice: “ci sono i capitalisti ed i proletari”, ma dichiara che questa profonda, radicale discriminazione tra gli uomini, per cui solamente una piccolissima minoranza si salva o è eletta, è teologicamente fondata, nel senso che dipende, cioè, da un modo in cui è stato percepito Dio, naturalmente all’interno della sua tradizione e del suo popolo.

E per rompere questa discriminazione, ha bisogno di risalire alla fonte della discriminazione stessa, e perciò pone la questione di quale Dio e pone la questione del patto. In questa analisi rileva che la discriminazione dipende dal fatto che i salvi sono coloro che stanno dentro il patto mentre i perduti sono coloro che ne sono fuori; il fatto poi che all’origine ci sia la grazia e dopo arriva il patto, fa parte anch’esso della percezione dell’immagine di Dio, perché il popolo ebreo, che teorizza di essere eletto, lo fa in base al fatto che sta nel patto, il patto è la dimostrazione che il popolo è stato eletto, sia pure per grazia; quindi siamo sempre all’interno dell’idea del patto. E’ il popolo del patto che teorizza di essere stato scelto per grazia, ma sempre all’interno dell’esperienza del patto.

Quando Paolo rimette fortemente in discussione il patto, e quindi questo tipo di rapporto contrattualistico tra Dio ed il mondo, risale appunto a prima del patto; certo risale ad Abramo, che non è poi una gran risalita, perché in Abramo con la promessa è già presente, è contestuale, la richiesta della circoncisione. In realtà Paolo risale ancora più indietro, perché dice “questo è un mistero che è stato nascosto per secoli e generazioni, e che adesso si svela” ; mistero che consiste nel fatto che tutte le genti sono concorporali, coeredi, compartecipi della chiamata divina. Risale, quindi, a molto prima di Abramo, un po’ come Gesù che risale fino al “principio”, alla creazione. Qui non è questione solamente di mettersi d’accordo sul fatto che tutti gli uomini sono eguali, ma qui Paolo cerca di porre un fondamento veritativo di questa eguaglianza degli uomini, di questa parità, del fatto che tutti gli uomini sono sul piede di parità. Nella storia poi ciascuno avrà la sua vicenda, cadrà, si rialzerà, crederà o non crederà, ecc.; ma questo è già un altro discorso, che attiene appunto alla risposta delle singole persone.

Se questa è la questione, a me pare, che oggi ci troviamo, in qualche modo, in una situazione abbastanza simile, perché, purtroppo, caro Luigi (Ferrajoli), questa convenzione di riconoscersi tutti eguali non funziona, con la maggior parte dei governi del mondo che, esprimendo implicitamente il volere delle proprie popolazioni, riconoscono forse questa uguaglianza sul piano formale, ma sul piano fattuale la disconoscono e mettono in campo politiche che la negano. Questo è il punto, per cui mettersi d’accordo sul fatto che siamo tutti eguali, oggi non basta più, non è un fattore sufficiente di salvezza per il mondo. Anche se credessimo, sul piano formale, di aver inserito tale convenzione nei patti internazionali, nei trattati, nelle costituzioni (e ce l’abbiamo inserita), tuttavia di fatto le grandi politiche che oggi sono in atto non sono per nulla conseguenti a questo concordato, a questa convenzione che gli uomini sono eguali.

Gli uomini oggi non sono eguali perché a una gran parte di loro non si mandano le medicine, perché molti si lasciano morire, perché l’Africa è un continente a perdere, e per tutte le ragioni che sappiamo bene e che abbiamo sempre detto. Di fronte a tutto questo, oggi possiamo dire che non è teologicamente fondata questa discriminazione; probabilmente è fondata fondamentalisticamente in rapporto ad un altro idolo, rappresentato dal mercato, dalla legge di scambio, dalla legge del valore; siamo, però, nuovamente di fronte ad una enorme potenza culturale, ideologica ed in fondo anche religiosa, perché al suo interno agiscono i vari fondamentalismi, capaci di far sì che il mondo sia oggi in condizioni peggiori di quelle che osservava Paolo. Ma quando lui dice: “..non c’è più né barbaro né scita”, lo afferma indipendentemente dal fatto che uno creda in Gesù Cristo o non creda; il fatto che questa rivelazione sia potuta avvenire in virtù dell’annuncio di Cristo fa sì che non ci sia più né barbaro né scita, fa sì che non ci sia più né schiavo né libero, ecc., e non è che uno non è più schiavo perché si converte a Gesù Cristo, o a Gesù Cristo si converte il suo padrone, ma non è più schiavo perché è avvenuto qualcosa radicalmente, è stato cioè tolto quel precetto che ci inchiodava, che ci imprigionava; è stata tolta la fondazione suprema di questa discriminazione.

Poi ci vorranno secoli per arrivare a superare la schiavitù, d’accordo; così come abbiamo impiegato decenni per superare le colonie e gli imperi dopo che erano stati aboliti nel 1945. Tutti i processi si sviluppano così. Ma, ritengo, che lì, in quel momento, con l’annuncio di Paolo, succede qualcosa per cui non c’è più né schiavo né libero, non c’è più né barbaro né romano, non c’è più né ebreo né gentile; questo è un fatto che accade. Dopo di che poi ciascuno crederà o non crederà, e questo è appunto un altro discorso. Ma quel fatto accade perché nella venuta di Gesù Cristo si è manifestata questa novità di Dio, già presente peraltro anche prima, ma che non si era capita, e cioè la assoluta gratuità della grazia, assolutamente indipendente da un patto, da un contratto, da uno scambio. Mi pare che questo sia il centro del messaggio di Paolo.

Luigi Ferrajoli: Ritengo del tutto giusto quello che ha detto Raniero (La Valle) nel senso che il significato di questa nostra discussione non verte tanto sull’esistenza di Dio, sul credere o non credere, ma sulla valenza universalistica che ha assunto la rivoluzione che viene dal cristianesimo e da Paolo rispetto alla religione particolaristica che è l’ebraismo; d’altra parte, aggiunge Raniero, è vero che i diritti non solo non bastano in sè, ma vengono violati, e così le carte costituzionali stanno fallendo, ecc. Ma la stessa cosa si può dire anche del cristianesimo e dell’Occidente, praticamente tutto cristiano (non mi pare ci sia un Occidente islamico), e quindi neppure questo riferimento evidentemente basta.

E’ vero, c’è oggi un nomos identificato nel mercato e che viene presentato come assoluto e imposto in maniera tendenzialmente totalitaria, per cui chi ne è fuori non è in grado di sopravvivere; contro questo nomos, io credo, siano possibili approcci diversi, nel senso che sono diversi i piani anche teorici della concezione delle strategie politiche e culturali di contestazione e mobilitazione: pensiamo, ad es., a tutto quanto si muove contro questo nomos ed anche, per altro verso, alle difficoltà ed al grado di ineffettività che praticamente produce la divaricazione che continua ad esserci tra un dover essere ed un essere – indipendentemente dalle diverse fondazioni, che peraltro non necessariamente si escludono, di quel dover essere.

In questo momento, ho una certa diffidenza nei confronti dei monoteismi, perché in effetti molto combattivi, si presentano come molto poco universalistici e gratuiti; certamente, peraltro, l’intenzione del cristianesimo era quella che dice Raniero, l’intenzione di Gesù Cristo è stata la prima vera forma di universalismo e storicamente l’uguaglianza iniziò di li. In questo senso, anche per un laico, rappresenta assolutamente un punto di riferimento, se non altro perché da allora, con Paolo, si è iniziato a pensare all’uguaglianza. La lontananza, però, tra il dover essere e l’essere è comprovata da tutta la storia del cristianesimo; su questo aspetto, quindi, siamo ancora molto lontani indipendentemente dai diversi punti di vista e dalle diverse teorie sulle quali possiamo divergere.

Giuseppe Barbaglio: Ci troviamo di fronte ad una duplice figura di Abramo: una prima che si evince dalla lettura giudaica secondo cui Abramo, prima ancora che la legge sia data, ha osservato la legge, con tutti gli elementi ad essa caratteristici, ed una seconda legata alla lettura che ne fa Paolo, che non è un esegeta rigoroso, che scarta ciò che non gli va bene ed assume ciò che lo interessa: lui non trova in Abramo il vangelo, che lui ha già, ma trova in Abramo il preevangelo, l’ẻpagghelia, e lo trova in un Abramo riletto da lui; tutto il problema è quindi la rilettura, l’immagine che Paolo fa di Abramo.

Ritengo che forse sarebbe meglio lasciar perdere il tema della caris, in certo modo un po’ complesso, per assumere il tema della equiparazione, che ho detto caratteristico di Paolo, ma che troviamo anche in Gesù. La famosa parabola de “gli operai della vigna”, in Matteo 20, ci presenta diversi operai che assunti, chiamati a diverse ore, vengono poi pagati allo stesso modo, con un denaro ciascuno, la paga cioè giornaliera; e quelli che avevano lavorato tutta la giornata dicono al padrone della vigna: “Tu sei ingiusto …nell’equiparare, nel fare eguali a noi, che abbiamo lavorato tutta la giornata, quelli che hanno lavorato anche una sola ora”.

Il tema dell’equiparazione è quindi già presente in Gesù, che da poeta qual è, si limita alla parabola che ha raccontato, mentre Paolo, pensatore e teologo, lo approfondisce e sviluppa.

Si potrebbe affermare che oggi, con la legge del mercato, con la globalizzazione, tutti siamo equiparati, ma l’equiparazione attuale, certo ancora non compiuta, che comunque si sta portando avanti, è un’equiparazione per assimilazione di diversi, mentre Paolo si oppone ai giudeo-cristiani di Galazia non perché questi non volessero i pagani, ma li accettavano se si lasciavano assimilare, li volevano fare giudei. Per Paolo, invece, l’equiparazione è il riconoscimento della diversità. “Tu sei giudeo, resti giudeo, tu sei gentile, resti gentile”; e non ha mai detto all’uno o all’altro: “devi convertirti”.

Questo, a me pare, sia il punto importante da cogliere. La volta scorsa ho citato Badiou, un filosofo marxista-leninista, chiaramente non credente, che è rimasto, però, molto affascinato da questo universalismo di Paolo, cui non riconosce certo una fondatezza veritativa in quanto riferita a Gesù Cristo, ma ammette che ci si trova di fronte ad una concezione universalistica tale per cui c’è una equiparazione salvando le differenze, mentre non è d’accordo sull’universalismo filosofico astratto che parte dalla natura umana uguale per tutti, ma non tiene in conto le differenze.

Da questo punto di vista, mi sembra interessante ciò che diceva Raniero (La Valle), quando affermava che noi assumiamo una concezione, che per i credenti è una fede; in questo senso vedo Paolo, non tanto come teologo, ma come pensatore, che guarda all’umanità da questa angolatura di un universalismo concreto, nel senso cioè di relativizzare le differenze, ma di mantenerle all’interno di un quadro più generale.

Un’ultima osservazione sui monoteismi: è vero che i monoteismi, nel corso della storia, abbiano rappresentato aspetti e momenti di forte intolleranza, così come e vero che il politeismo pagano fosse molto tollerante, anche se a volte, e per i motivi che ho detto, ci sono state, da parte di questo, significative persecuzioni; è interessante in proposito pensare che qui a Roma abbiamo il Pantheon, dove tutte le religioni del tempo, tranne gli ebrei ed i cristiani, ponevano le statue rappresentative delle loro divinità: ciò era certamente segno di una notevole tolleranza di fondo.

Ripeto però che, a mio avviso, è sempre importante distinguere quello che è Dio in sè, questo assoluto che riassume in sè la totalità della verità, dalle nostre immagini che ci facciamo di Dio e che sono sempre relative, e che invece consideriamo assolute; l’intolleranza monoteista deriva sempre da questo processo perverso di identificazione della nostra immagine di Dio, chiaramente relativa, col Dio che racchiude la totalità della verità.

Vasti, seminario del 4 aprile 2004